VIVA NISSE; SVADESE DEL MONFERRATO

di Fabio Alessandria

1. È morto Nisse, se lo si vuol vezzeggiare per il nome, o Liddas, se si vuol usare il nomignolo derivante dal suo cognome: da tutti era conosciuto con il titolo di Barone. Scrivendo della morte di Nils Liedholm ci si stringe un groppo alla gola che è del tutto irrazionale ma quantomai reale. Nato in Svezia nel 1922, è stato sepolto a Torino, considerandosi ormai un italiano adottivo. Grande fuoriclasse in campo e poi in panchina ha portato la nazionale svedese, assieme a Gren e Nordhal, ai maggiori trionfi della sua storia: l’Olimpiade del 1948 e la finale mondiale del 1958, persa con il Brasile del 17enne Pelè e tenuta in equilibrio per quasi settanta minuti proprio da un gol dell’ormai 36enne Nils. Regista eccezionale, dotato di buon fisico, grande lancio, visione di gioco pazzesca e tiro preciso e potente, inizia da numero dieci, arretrando progressivamente la sua posizione fino al ruolo di centromediano metodista, ancora d’uso nell’anno del suo ritiro dal calcio giocato, nel 1961. Gioca tutta la sua carriera italiana di club nel Milan, dove si ripropone la terna svedese (il celeberrimo Gre-No-Li, ci vengono i brividi solo a scriverlo) che è il motivo recondito del tifo in rossonero di tre generazioni di bambini, oggi almeno ultracinquantenni. Col Milan vince quasi tutto: 4 scudetti, due Coppe Latina (antenata della Coppa dei Campioni: aveva esattamente gli stessi criteri d’ammissione e lo stesso prestigio, negli anni Cinquanta…). Cede lo scettro del comando in campo a Rivera e inizia ad allenare. Importa nel campionato italiano, caratterizzato ancora dalla marcatura a uomo, diverse novità. La zona mista, all’olandese, liberando gli uomini migliori dal gioco delle coppie delle marcature (di gran moda, comunque, fino all’avvento del sacchismo… basta sfogliare i quotidiani) e un prolungato possesso palla, fatto di passaggi brevi e veloci (“meglio far correre la palla, la palla non suda!” ebbe a dire il Barone in uno dei suoi celebri aforismi). Da allenatore vince lo scudetto della stella di un Milan senza una punta di ruolo (non se l’è inventato Spalletti di mettere Totti centrattacco e nemmeno Capello, sveglia…) e lo storico secondo scudetto della Roma, portata anche in finale di Coppa Campioni l’anno successivo (1984) e sconfitta solo ai rigori dal Liverpool. Con Liedholm se ne va un vero signore, garbato, elegante e dall’ironia raffinata, di cui riusciamo a scorgere un erede (un tantinello troppo emiliano e rotondo, ad essere sinceri) solo in Carlo Ancelotti, creatura calcistica, tra le tantissime, proprio del Barone e non di Sacchi.

2. La nazionale femminile di pallavolo ha vinto la Coppa del Mondo in Giappone, chiudendo imbattuta e dando continuità all’oro dei recenti Europei. Frantumato il record precedente di vittorie consecutive della “generazione di fenomeni” di Velasco, ed ora aggiornato a 21. Una squadra fortissima (adoriamo il metro e 58 del libero Cardullo, e la magnifica Simona Gioli) impreziosita per mentalità e classe dalla bi-olimpionica, con Cuba, Tai Aguero. Una schiacciatrice pazzesca, abilissima a muro e dai fondamentali perfetti, dotata di uno stacco a piè pari che è la descrizione per immagini del concetto di poesia in movimento che cerchiamo di descrivere in questa rubrica. Parleremo della bellissima Taimaris anche nelle prossime uscite.

3. Dedicherò alla morte di Gabriele Sandri la chiusura del mio pezzo, pur essendo convintissimo che non c’entri nulla col calcio, ma, più banalmente, con l’umana follia. Se un poliziotto si crede improvvisamente l’eroe di un film hollywoodiano e spara ad altezza uomo da ottanta metri (il proiettile vagante ha attraversato un’autostrada a quattro corse sfiorando un disastro ancora maggiore, se possibile, almeno per numero di morti…) non riusciamo a vedere il nesso con il football: proprio non ci riesce. Così come non ci riesce di capire come mai, in risposta, trecento ultras (complessivamente) riescano nell’edificante impresa di far sospendere una partita a comando (Atalanta- Milan, con uno spicchio di curva che invade il campo mentre tutti gli altri fischiano…) e, in serata, assaltare una caserma, dando fuoco a qualunque cosa si trovi sulla loro strada: una roba mai vista, nemmeno negli anni di piombo. Un trentennio di connivenza e di continue concessioni alle minoranze violente delle tifoserie (Rivera denunciava il fenomeno già negli anni Settanta) hanno messo le società e lo Stato in una posizione debole, con l’impossibilità per le dirigenze di agire, perché sempre sotto la gogna della responsabilità oggettiva (i tifosi possono tutto, in primis fermare le partite e farle perdere, provocando danni economici enormi…) e per lo Stato di reprimere perché, in fondo, è meglio che certi imbecilli vengano richiusi in recinti dove è più facile tenerli d’occhio (le curve sono l’ideale) piuttosto che siano in giro a spaccare teste o, chissà, a rovinare opere d’arte. Uno Stato serio chiuderebbe le curve e vieterebbe tutte le trasferte per un quinquennio, dando lo stadio in concessione gratuita alle società per un arco di tempo molto lungo ma trasferendo su di esse oneri e onori della sicurezza interna e del riammodernamento delle strutture. Troppo semplice? Forse, per adesso prendetela come un’idea vaga: sulla questione stadi, curve e violenza torneremo a breve, con un’indagine più approfondita.