QUANDO GIOCAVA PASOLINI

di Fabio Alessandria

Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare? Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è il più grande dei piaceri. Così parlò Pasolini, intervistato da Enzo Biagi sul finire del 1973. Pasolini che ricorda come i più bei pomeriggi della sua vita siano quelli passati sui prati di periferia, con le infinite partite di ragazzini e lui lì, instancabile, all’ala destra, per ore, mezze giornate, senza mollare una palla. Già. In che ruolo poteva giocare Pasolini, se non all’ala destra? Il ruolo meno di prosa (almeno fino al finire degli anni Settanta) e più di genio, poesia pura. Come Gigi Meroni e George Best. Il calcio: lo sport nazionale per eccellenza in buona parte del mondo, specchio della società. L’unico sport a mantenere un livello di tensione costante molto prima e molto dopo l’ora e mezza di gara, a coinvolgere tutti gli strati sociali in modo uniforme, gioco amatissimo in quanto intuitivamente simbolico e facilmente replicabile in migliaia di campetti e spazi aperti. Cosa serve per il football, in fondo? Una sfera rotonda (di cuoio, plastica, pezza, carta…), due oggetti qualunque a delimitare gli spazi delle porte e la voglia di correre su e giù per il campo. L’oggetto che vola in aria, seguendo le sue strambe traiettorie, assume le caratteristiche di un vero e proprio linguaggio. Continuiamo a seguire il filo del discorso dello scrittore. Possiamo dividere i sistemi di gioco e i giocatori secondo due grandi categorie: i prosatori e i poeti. In Italia e in Europa, dice Pasolini, (è l’epoca del Brera centrismo, Euclide in purezza, almeno in teoria) si gioca un solido calcio di sistema, geometrico, fatto di eccellenti prosatori e di qualche elzevirista estetizzante che però lavora per il collettivo (Rivera, Mazzola…). Poi ci sono gli attaccanti, dediti per loro natura alla lirica in quanto addetti al goal, momento di sovversione del codice della partita, di invenzione, stupore e irreversibilità per l’andamento della gara: questi sono poeti e cambiano di anno in anno in base alla classifica marcatori (intuizione geniale…). L’unico altro momento di poesia, presente anche nei sistemi di gioco all’europea, è il dribbling, portato solitamente dalle ali (Mario Corso è un poeta maudit, Gigi Riva un poeta realista per via dello strapotere fisico…) e dai fantasisti. Dribbling e goal sono dunque gli elementi della poesia individualistica del folber, sostituita nel Vecchio Continente dalla “prosa collettiva”, aderente al codice, in sostanza, realizzata attraverso fitti passaggi, corsa ordinata e prestanza atletica. In ogni paese il mondo di giocare a calcio rappresenta la sua cultura in un preciso momento storico. In Italia si fa in modo elegante e conservatore: democristiano. Rivera ne è il giocatore principe anche simbolicamente (è curioso notare come Rivera, smessi gli scarpini, farà il deputato per la DC…). In altre nazioni, dove la capacità di dribbling è diffusa in un gran numero di calciatori e il goal può avvenire da ogni situazione, si gioca il football poetico. È il caso del Brasile e di buona parte del Sudamerica. Sociologi, filosofi, pittori, scultori, giornalisti, operai, artigiani, alla fine sono lì, tutti insieme, tutti a soffrire come cani alle folate avversarie e ad incensare i propri eroi, ad abbracciarsi nel momento magico di una segnatura: questo rimane, nel fondo, di un linguaggio coi suoi poeti e prosatori, resta l’idea immortale che le ore dentro uno stadio o in un parco, a guardare o a rincorrere l’oggetto magico, saranno sempre le migliori della nostra vita.