FRAM(M)ENTI - CASTIGLIONE
SALA FUMATORI
Locali fumosi dove le luci basse faticano ad attraversare le nuvole prodotte dalle sigarette accese, conversazioni condite da sbuffi di fumo seduti ad un tavolino o al bancone del bar; tutto questo rischia di diventare poco più di un ricordo a seguito della nuova legislazione sul fumo nei locali pubblici, e l’unico luogo dove si potrà fumare dopo un caffè presto sarà la pellicola cinematografica (che recentemente ha celebrato il piacere combinato di caffeina e nicotina nel bellissimo Coffee and cigarettes di Jim Jarmusch, vero elogio della sfuggente, futile, fumosa conversazione da tavolino).
L’Associazione Culturale FramMenti ha dedicato al fumo nel cinema la sua seconda rassegna cinematografica, ospitata da Villa Brescianelli e intitolata appunto Sala fumatori. Il percorso si è aperto con Smoke di Wayne Wang, sceneggiato dallo scrittore Paul Auster; il film ha il suo epicentro nella tabaccheria di Auggie Wren (interpretato da un magistrale Harvey Keitel), intorno alla quale orbitano storie e personaggi che si incontrano quasi per sbaglio, grazie a coincidenze in apparenza banali.
Auster ama scrivere degli incroci, delle combinazioni che decidono il destino delle persone; dettagli insignificanti che si rivelano determinanti, momenti banali che nascondono schegge di vita.
Wang affida alla macchina da presa quasi ferma il compito di cogliere questi frammenti di vita, lasciando allo spettatore la ricerca dell’esemplare dentro l’insignificante; i protagonisti parlano, fumano e discorrono di fumo, ma soprattutto raccontano. Ognuno ha una storia da raccontare, e lo fa sempre con una sigaretta tra le labbra; il fumo diventa qualcosa che rende più completo il discorso, si insinua nella narrazione e le conferisce un alone di mistero o di mito. Il racconto ha un senso di maggiore compiutezza, a sigaretta finita. Se in Smoke il fumo è complemento della comunicazione, ne L’uomo che non c’era, dei fratelli Coen, ne diventa il sostituto. Il film (premio per la regia a Cannes 2001) è un omaggio ai classici noir degli anni ’40 (La fiamma del peccato di Wilder e Il grande sonno di Hawks, per citare solo le due fonti più evidenti), evocati dalla splendida fotografia in bianco e nero e dalla personalità del protagonista; un uomo mediocre, un antieroe il cui peccato è l’arroganza di voler modificare un’esistenza grigia e monotona. L’interpretazione di Billy Bob Thornton nei panni del barbiere Ed Crane è eccezionale; impassibile e silenzioso, è lui l’uomo che non c’era, di cui nessuno si accorge perché troppo anonimo, l’unico suo tratto distintivo è il camice e quando lo toglie, non viene riconosciuto.
Thornton attraversa il film perennemente con una sigaretta penzoloni tra le labbra, rendendola parte della caratterizzazione del personaggio; non parla quasi, si esprime a monosillabi, preferisce fumare perché secondo lui “ci sono cose che non hanno parole”.
Il fumo diventa uno schermo tra lui e la gente, un sipario dietro il quale sparire quando è inutile tentare di parlare.
La rassegna si è chiusa con un film di segno opposto, dove non viene accesa una sola sigaretta: Insider, di Michael Mann, un riuscito ibrido di fiction e ricostruzione documentaristica che racconta le vicende di Jeffrey Wigand, scienziato per un’industria del tabacco che vede la sua vita scivolare nell’incubo quando decide di rivelare le tecniche usate per potenziare l’effetto di assuefazione della nicotina con sostanze nocive. Film potente e rigoroso, che parla di responsabilità ed etica, e in cui il fumo è un veleno reso ancor più pericoloso dalla sete di denaro di industrie prive di scrupoli.
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