QUANDO IL BOICOTTAGGIO VINCE

di Claudio Morselli

DAL CASO NIKE RIFLESSIONI PER COMPORTAMENTI ETICI

«E’ una rivoluzione», ha commentato un dirigente sindacale americano dopo aver appreso che la Nike, pressata e, molto probabilmente, penalizzata da una campagna internazionale di boicottaggio, ha finalmente riconosciuto la fondatezza delle denunce sostenute da tante associazioni e organizzazioni non governative, da gruppi di attivisti e dai sindacati di mezzo mondo. «E’ vero – ha dovuto ammettere la famosa multinazionale con il logo a virgola – nelle fabbriche dove si producono le scarpe Nike ci sono abusi e maltrattamenti, orari di lavoro spesso massacranti, paghe miserevoli e non si rispettano i diritti sindacali». Il tutto è stato messo nero su bianco nel Responsibility Report 2004 (il “Rapporto sulla responsabilità sociale” dell’azienda), redatto da un pool di esperti, pagati dalla multinazionale americana, per realizzare quella che è stata definita una vera e propria “operazione trasparenza”. Il motivo di questa incredibile operazione? Recuperare, di fronte ai consumatori, una positività di immagine che negli ultimi anni è stata fortemente compromessa dalle denunce sulle condizioni di lavoro dei suoi stabilimenti e dalla campagna di boicottaggio che ne è scaturita. Si viene così a sapere che, mentre i dipendenti Nike sono soltanto 24mila, ci sono, nel mondo, 731 stabilimenti di società appaltatrici dove si producono le sue scarpe e dove sono impiegate altre 630mila persone, in maggioranza donne. Per ognuna di queste fabbriche sono descritte le condizioni di lavoro interne. Questo rapporto non andrà forse a confermare tutte le situazioni di illegalità che sono state denunciate – come quelle più odiose riguardanti lo sfruttamento di lavoro minorile o quelle riguardanti le pessime condizioni di salute di molti lavoratori, esposti ai vapori di colle, solventi e vernici – ma rappresenta senza dubbio un evento storico e una grande vittoria del movimento no global per i diritti e la giustizia sociale. Indipendentemente dalla volontà della Nike di intervenire, e fino a che punto, per porre fine agli abusi, rimane il fatto che questo “mea culpa” è comunque dirompente, anche perché, per la prima volta, nel rapporto sono stati indicati i nomi di tutti gli stabilimenti di produzione, con i relativi indirizzi. Ciò è di fondamentale importanza perché possa essere svolta un’azione reale di controllo e di verifica, da parte di osservatori internazionali indipendenti, a tutela dei diritti dei lavoratori. Il caso Nike conferma, ancora una volta, il valore e l’efficacia delle campagne di boicottaggio. Colpite nella loro immagine e nel loro portafoglio, le multinazionali sono costrette a ripensare i loro comportamenti in funzione di una responsabilità sociale da cui non deve prescindere la ricerca del loro profitto. In questo modo il cittadino consumatore non assiste passivamente alle ingiustizie ma agisce per orientare il mercato in senso etico, utilizzando al meglio il grande potere, che ha nelle sue mani, di contrastare il dominio dell’“impero”. Questa consapevolezza comincia a farsi strada anche fuori dai circuiti tradizionalmente alternativi e movimentisti. L’anno scorso, ad esempio, l’XI Municipio di Roma ha deciso di bandire da uffici e scuole di propria competenza i prodotti della Coca Cola, altra multinazionale posta sotto boicottaggio dal movimento no global per le accuse di violazione dei diritti umani e sindacali all’interno dei suoi impianti di produzione. Alla festa dell’Unità di Firenze, sempre l’anno scorso, sono stati messi al bando i prodotti della Coca Cola, della Nestlé e della Philip Morris. La Nestlé è responsabile della violazione del codice internazionale di Unicef e Oms che proibisce la promozione del latte in polvere per bambini, affinché non sia penalizzata la pratica dell’allattamento al seno, che rappresenta il miglior nutrimento per i neonati. Secondo l’Unicef, la violazione di tale codice – ad esempio, con forniture gratuite agli ospedali – contribuisce, nei paesi più poveri del mondo, alla morte, ogni anno, di un milione e mezzo di bambini, aggrediti da malattie causate da deficit nutrizionali e dall’utilizzo di acqua non potabile per la diluizione del latte in polvere. La Philip Morris, multinazionale del tabacco (Marlboro, Chesterfield, Merit) è presente nel settore alimentare con i marchi Kraft, Philadelfia, “Fattorie Osella”, Milka e cioccolato Suchard. La campagna di boicottaggio internazionale è stata proclamata per la realizzazione di pubblicità ingannevoli, per danni all’ambiente e per concorrenza sleale nei confronti di milioni di piccoli produttori di cacao dei paesi poveri.
E’ di qualche settimana fa la notizia che la Coca Cola sarà boicottata anche dal circuito dei college americani, che già avevano aderito al boicottaggio della Nike. Queste le accuse formulate a carico della multinazionale delle bollicine: violenza nei confronti degli attivisti sindacali degli stabilimenti colombiani della Coca Cola, sfruttamento del lavoro minorile in Salvador, mancata assistenza sanitaria per i lavoratori sieropositivi in Sudafrica, catastrofe ambientale con esaurimento delle falde e prosciugamento di centinaia di pozzi, in India, attorno ai suoi stabilimenti (per fare un litro di Coca Cola servono nove litri d’acqua). Se si considera che le campagne di boicottaggio si realizzano nell’assenza più totale di qualsiasi informazione, sia in tv che sui grandi giornali, si può pensare a quali e quanti risultati si potranno conseguire quando (e ci arriveremo) la pratica del boicottaggio, anche con il sostegno di un minimo di informazione, uscirà dalla riserva indiana per diventare patrimonio culturale di una collettività che troverà più che naturale rispondere, con comportamenti etici, alle sollecitazioni della propria coscienza.