GLI SVIZZERI SON SEMPRE
PUNTUALI, E I FRANCESI?

di Fabio Alessandria

Troppo facile la vita del notista sportivo, in questo mondo di matti. Ancor più gustosa se la parte degli italiani l’hanno fatta, per una volta, i cugini francesi, con i loro nasini all’insù. Antefatto. All’inizio della primavera il mondo del ciclismo vive la stagione delle classiche, le corse di un giorno che hanno fondato il mito di questo sport. La classica tra le classiche è la Parigi-Roubaix, l’ultima follia, la rappresentazione di un mondo eroico, dai colori vagamente seppiati (della serie i bei vecchi tempi andati…) che resiste alla dittatura delle bici ultraleggere e dei telai in fibra di carbonio. Come tutti saprete la Roubaix è una corsa massacrante perché per lunghi tratti si snoda su di un percorso antico, dal pavé sconnesso, con buchi in grado di annientare le ruote meglio forgiate, spezzare manubri, far finire col culo per terra i campioni più celebrati, riportandoli alle nostre origini comuni: abbiamo avuto tutti le rotelline di sostegno. Il percorso poi è tortuoso, a saliscendi, stretto, senza alcuna comodità per molti e molti chilometri. Per questo vincere la Roubaix è dannatamente difficile, richiede una preparazione fisica specifica e, quando vinta, regala l’immortalità sportiva. Nell’albo d’oro abbiamo nomi grossi di belgi e francesi, da Vlaeminck a Merckx, passando per il grande Lassale e poi italiani illustri come Gimondi e Coppi e, per tre volte di fila, quello di Moser. Spesso chi vince la corsa concede, in carriera, almeno un bis: è l’indice più sincero di una gara, come potrete immaginare, ad altissima specificità. Aprile 2006. Tutto si svolge nella solita tremenda e affascinante cornice. Schermaglie iniziali, qualche tentativo di strappo, ricomposizioni. Poi un giovanotto scatta e prende il corridoio buono. È uno svizzero, particolare che ci tornerà assai utile nel prosieguo del nostro racconto. Si chiama Fabian Cancellara, ha 26 anni e non ha una grande storia sportiva da raccontare. Però è in gran forma e sul pavimento antico va come un’anguilla, superando di forza e agilità tutte le insidie. La fuga prende forma e dietro il gruppo si organizza per andarlo a riprendere. Per chi insegue c’è un problema in più: stabilizzare un treno di corridori che guidino la rimonta, in certi tratti, è quasi impossibile; si va uomo contro uomo, ma tutto è ancora aperto, le squadre dei velocisti ci provano e in fondo, si sa che il mondo è pieno di gregari. Poi nei pressi di Aso, a dieci km dall’arrivo, succede l’imponderabile.
C’è, in quel posto, un tratto di ferrovia che serve in gran parte per spostare le merci. Cancellara arriva e supera le rotaie senza nessuna difficoltà, ci mancherebbe altro, tutto procede bene, si vede che ha un gran passo. Ma la scure del destino sta per abbattersi sugli organizzatori della classica e sulla nazione che si autoaccredita, da sempre, come la migliore in molte cose, tra cui organizzare eventi agonistici di velocipede. Il campanello della ferrovia comincia a suonare, il passaggio a livello si abbassa inesorabilmente sulle voglie degli inseguitori, sulla loro fatica, sul sudore della corsa e tutto il resto. Il semaforo è rosso. Alcuni atleti, presi dalla trance agonistica, passano lo stesso, rischiando di brutto (la beffa è in agguato, verranno squalificati perché il regolamento impone, in quei casi, di attenersi scrupolosamente al codice della strada) ma la frittata è fatta e la figuraccia euromondiale è inevitabile. Cancellara, favorito dai geni elvetici e dalla passione innata per gli orologi di precisione, nonché dalla prudente consultazione del libretto con gli orari dei treni, continua la sua pedalata rotonda e finisce in solitaria nel Velodromo di Roubaix, manco si trattasse della sgambata della domenica sui colli morenici, gli altri rimangono con il famoso pugno di mosche in mano e una serie di malcelate lamentele all’Altissimo nella gola. Disorganizzazione allo stato brado, insomma. Il fatto che un misero treno merci abbia falsificato, fino a farla deragliare, la corsa più affascinante e importante del mondo, resta comunque una cosa incredibile, da farsi risate veramente grasse, oltre ad essere l’ultima e decisiva prova che ci serve per stabilire una verità dolorosa quanto banale: in questo mondo di matti la poesia si è buttata davvero sotto le rotaie…