RICORDO DI GIACINTO MAGNO, PRINCIPE DEI LATERALI

di Fabio Alessandria

Se n’è andato anche Giacinto Facchetti, all’età di 64 anni. Per i funerali, in pieno centro a Milano, c’erano quasi quindicimila persone e il lutto è stato, mai come stavolta, sincero e unanime. È il destino dei miti, della loro funzione esemplare e simbolica. Facchetti è il simbolo della giovinezza gagliarda e della speranza di una nazione, e, la gioventù, si sa, è sempre il luogo ideale, il momento perfetto. Nato a Treviglio nel 1942, comincia a tirar calci al pallone già da piccolissimo, incoraggiato da una famiglia benestante e appassionata di futbol e ciclismo. Nella Trevigliese gioca da attaccante e viene presto annesso alle giovanili dell’Ambrosiana. È l’inizio dell’epoca d’oro della Grande Inter di Angelo Moratti presidentissimo, Allodi direttore generale e il Mago Herrera in panchina. Ed è proprio Habla Habla a cambiargli il ruolo, reimpostandolo laterale difensivo per sfruttarne appieno il fisico possente e lo scatto fulmineo. Giacinto è, per i tempi, una specie di superuomo. Alto quasi un metro e novanta e con tempi da velocista puro negli ottanta piani, può permettersi infinite scorribande d’attacco (alla fine segnerà qualcosa come 75 gol in totale tra campionati e coppe) e incredibili recuperi difensivi. H.H. vede nel ragazzino qualità non comuni e lo mette in campo già sul finire della prima stagione tra i professionisti, nel 1960. Diventa titolare inamovibile l’anno dopo e non lascerà più la difesa dell’Inter fino al 1978, anno del ritiro, dopo tre stagioni giocate meravigliosamente da libero e il quarto mondiale consecutivo, seppure da capitano non giocatore. Nella sua carriera, appunto, due costanti: l’Internazionale e la Nazionale azzurra. Con l’Ambrosiana vince tutto, 4 campionati, due coppe Campioni, due Intercontinentali e una coppa Italia: è l’irripetibile Grande Inter. La storia d’amore con la squadra azzurra invece fatica a carburare. Le sue straordinarie doti, atletiche e tecniche, non tardano ad impressionare anche il C.T. Fabbri, che però lo giudica poco adatto alla fase difensiva, troppo rischioso, e ne snatura, per quasi due anni, il modo di giocare e il ruolo, avanzandolo ad ala. Il catenaccio di Fabbri condurrà poi l’Italia ai ben noti disastri mondiali della coppa del Mondo ’66, con l’eliminazione dei nostri da parte del dentista coreano Pak Doo-Ik. Subentra Valcareggi che resterà nella memoria per la famosa staffetta Mazzola- Rivera a Messico ’70. Il Ferruccio affida la fascia di capitano a Giacintone che consuma subito la sua rivincita. Agli Europei del 1968, i meno celebrati di sempre visto il clima dell’epoca, è proprio lui a sollevare il trofeo per la vittoria degli azzurri dopo che, in semifinale (a Napoli, con lo squadrone dell’URSS) era stata la sua mano fortunata a battezzare la parte buona della monetina nello spareggio testa o croce al termine della partita, conclusa in parità (all’epoca non esistevano i calci di rigore). Il discorso azzurro è ancora lungo e denso di soddisfazioni. Sempre da capitano diventa vicecampione del mondo a Messico ’70, con l’Italia battuta in finale dal più forte Brasile di tutti i tempi, e non prima di essere entrata nella leggenda sportiva grazie alla semifinale dell’Azteca con la Germania Ovest, 4 a 3 con contropiede decisivo di Rivera. Il mondiale del ’74 è una catastrofe. Una squadra di fenomeni alla frutta, logori, stanchi e viziati, non supera il primo turno ma Giacinto diverrà il protagonista assoluto di Azzurro Tenebra, il grande romanzo che Arpino trae da quella fallimentare esperienza (vedi Civetta luglio 2006). Campione amatissimo per le doti umane e la correttezza, una sola espulsione in vent’anni di carriera, è esempio unico e unificante del nostro calcio. Per questo le lacrime di questi giorni sono vere e copiose. Per questo, nel cuore e nella memoria degli sportivi sarà, solo e sempre, Giacinto Magno, signore della fascia laterale. Ciao Cipe, ti sia lieve la terra.


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