I NOSTRI GIORNIAZZURRO TENEBRA

di Fabio Alessandria

Vivo in una posizione di attesa. Nel mese dei mondiali, e senza poter posticipare la data d’uscita del giornale per rincorrere un pallone, io, scriba sportivo, resto senza frecce al mio arco. Tuttavia il dolce obbligo di rubrica costringe a pensare a qualcosa di meraviglioso per questa pagina. Sembra non esserci soluzione e, invece, girando gli occhi alla scrivania, mi rendo conto che la soluzione è semplicissima. Sul mio tavolo ha un posto garantito, da quasi due anni, un meraviglioso romanzo di Giovanni Arpino dal minaccioso titolo di Azzurro Tenebra. Tanto per essere chiari fin dall’inizio è il miglior libro italiano sul calcio, seppure col respiro amplissimo e simbolico tipico dei migliori romanzi corali del secondo Novecento italiano e, per puntualizzare, ho scelto di parlarne proprio questo mese per via della sua straordinaria attualità, pur essendo passati quasi trent’anni dalla prima edizione per Einaudi. Azzurro Tenebra narra la storia di Arp, l’autore, maturo inviato sulla cinquantina, editorialista sportivo per un grande giornale del Nord ai Mondiali di folbèr del 1974, svoltisi, guarda caso, anche quell’anno in Germania. La storia si dipana su più piani, prendendo spunto dal racconto delle partite dell’Italia in quella sciagurata avventura calcistica. Una generazione di fenomeni alla frutta (Facchetti, Riva, Rivera, Mazzola, Capello, Burgnich, Zoff, che poi troverà una seconda giovinezza nel ciclo Bearzot), molli e viziati, vinti dal tempo che, inesorabile, scorre. È l’ultima prova d’insieme di quella squadra che, uomo più uomo meno, aveva vinto l’Europeo del ’68 e perso solo in finale a Messico ’70 dal più forte Brasile di sempre (quello dei quattro “numeri 10” in campo contemporaneamente, con i migliori Pelè e Rivelinho della carriera). La storia sportiva si risolverà con una cocente eliminazione al primo turno a gironi. Tuttavia il racconto dell’evento calcistico non è che un pretesto narrativo per parlare di molto altro, col solito stile dei piemontesi: non una parola in più del necessario, poche parabole aeree, piedi bene piantati al suolo e nessuno spreco di aggettivi. Il vero centro del discorso di Arpino, scopriamo presto, è la riflessione sulla vita da inviato, con le sue scomodità, gli infiniti spostamenti su autobus scassati su e giù per una Germania terribilmente fredda nonostante l’estate, la noia di interviste sempre uguali e le ore lunghissime del pre-partita. È un romanzo denso di personaggi e colmo di poesia. Sullo sfondo, nemmeno troppo in penombra, c’è tratteggiata la vita degli immigrati italiani, col loro carico di fatica, di rancore e di bestemmie per il Paese che li ospita, sfruttandoli, e per i loro eroi, gli artisti del pedatare, che, da possibile elemento di riscatto sociale, diventano ulteriore motivo di rabbia e derisione. Dentro ci troviamo tutti gli elementi tipici della poetica di Arpino. Già, Giovanni Arpino. Meraviglioso scrittore morto sul finire degli anni ’80, celebrato in vita con numerosi premi letterari, autore di quello che Montale ha definito uno dei più grandi romanzi brevi della modernità (La suora giovane) e di quel Il Buio e il Miele da cui poi Gassman e, in seguito, Al Pacino, avrebbero tratto il protagonista di Profumo di Donna. Eppure dimenticato un giorno dopo la sua morte. Molte sue opere sono, infatti, scandalosamente fuori catalogo Einaudi, compresi i capolavori L’ombra delle colline e, appunto, Azzurro Tenebra. Nell’ottica dell’autore, forse, questo non sarebbe da considerarsi un grande affronto. Uno scrittore si deve spendere nel presente. Tuttavia della lezione del grande Arp, abbiamo ancora molto, ma molto, bisogno, altro che Nick Hornby…


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