LE RUOTE SGONFIE
DI MR. MILLIMETRO

di Fabio Alessandria

I francesi e gli sportivi tutti, aspettando invano che la testa del tiranno ruzzolasse giù da qualche ardua salita, delle Alpi prima, dei Pirenei dopo, non hanno mai tifato per Lance Armstrong, almeno (a memoria) negli ultimi cinque Tour de France. Quest’anno, però, hanno fatto di meglio: l’hanno sonoramente fischiato, a volte insultato, di certo gufato. Armstrong, proprio lui, il signor sette tour consecutivi? Ebbene sì. Agli appassionati di ciclismo non piace molto il calcolo, la perfezione matematica. La bicicletta è ancora una questione di cuore e polmoni, l’ultimo ritaglio possibile di poesia epica in uno sport sempre più industriale. Big Lance, invece, ci ha portato il big business, ha gestito per tutta la carriera ogni sforzo, ogni battito del cuore. Non lo si è mai visto in fuga una volta in sette anni. Solo qualche strappetto, qualche ringhio per andare a riprendere qualche guaglione sfuggito, per puro caso, al controllo della Squadra. Eppure la sua storia personale, un vero concentrato di etica a stelle e strisce, sembra scritta apposta per far innamorare gli esteti del pedale. Breve riepilogo per chi non sapesse il plot. Il buon Lance è un professionista mediocre (nella gara d’esordio è addirittura ultimo). È colpito da tumore. Vince il tumore. Torna in bici e ricomincia a correre. Diventa invincibile e domina a mani basse sette tour de France in fila. Un supereroe, insomma. Infatti gli americani lo adorano. Gli europei per niente. I francesi hanno adottato per un lustro un’impresentabile Ian Ulrich pur di poter tenere la parte a qualcuno. Del resto riuscite a ricordare qualche impresa vera di Armstrong? Una fuga alla Chiappucci, pur sopravvalutato all’estremo? Un Mont Ventoux vinto in rimonta o per eclatante distacco? Certo, l’impressione di dominio l’ha data eccome, l’idea di poter stravincere, scappando ad ogni istante, anche. Ma non s’è mai concesso. Non ha praticamente mai corso una classica, mai un Giro, mai una tappa alla Vuelta, tutta la grancassa è stata solo per la Grande Boucle e null’altro. Un corridore capace di stabilire le ore e i minuti di permanenza sul sellino ancora prima dell’inizio della stagione agonistica non può essere certo un mostro di simpatia. Ne sono vaghi indizi anche il soprannome ragionierile di “Mr. Millimetro”, la continua arroganza nell’esibire amicizie importanti al di fuori dal mondo sportivo, la serietà nell’interpretare il ruolo del capo del movimento pedalatorio. C’è, in mezzo a questa antipatia istintiva, anche qualche nuvola più scura. L’impressione che la rinascita agonistica di Lance, dopo aver battuto il cancro, più che figlia di un miracolo sia, in buona sostanza, un prodotto di laboratorio. Gli atleti bionici spaventano, sono lontani, non fanno tremare di gioia la gente. Ciliegina saporosa. Il sospetto che il cancro sia stato causato da accidenti dopanti e le nuove, quantomai attese, rivelazioni dell’Equipe sull’utilizzo sistematico di Epo da parte del texano, durante perlomeno tutto il Tour del ’99, hanno dato lo scossone finale ad un’immagine mai trasparente. Rivelazioni che, sebbene furbe per tempistica e modi, hanno solo ribadito un’evidenza: nessun uomo può andare così forte in bicicletta, in modo tanto maniacale e selettivo. Armstrong si è ritirato. Resterà in tutti gli annali, ineludibile in ogni statistica. Più difficile che resti nel cuore degli appassionati: non si ama la gente coi superpoteri. D’altronde, si sa: i francesi si incazzano e le balle ancora gli girano… ma non potranno mai sostituire il Ginettaccio con lo Space Cowboy.


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