INTERVISTA
A TELMO PIEVANI

di Luca Cremonesi

Le chiedo un commento sul tema di questa edizione di Mosaicoscienze: “Intelligentemente - Come uomini, macchine e animali manifestano questa sfuggente proprietà”.
Mi pare un tema affascinante, che permette di unire competenze scientifiche differenti rimanendo sulla frontiera della ricerca in corso, come sempre dovrebbe avvenire nelle manifestazioni di comunicazione della scienza. Concordo con l’ultima provocazione di H. M. Enzesberger, che già era stata sottolineata con forza da un evoluzionista come Stephen J. Gould in Intelligenza e pregiudizio: l’intelligenza è una proprietà difficile da definire, si sottrae facilmente alle quantificazioni ed è ancor più rischioso compararla. Noi proiettiamo su di essa i nostri pregiudizi. Personalmente, non mi sembrano molto convincenti neppure i continui tentativi di elencare le molteplici “intelligenze” di cui sarebbe composta la nostra mente: la lista cambia ogni volta in base alle contingenze del momento. Più che spezzettare le intelligenze, mi pare molto opportuno che negli incontri di questa edizione si valorizzino gli elementi di eterogeneità dell’intelligenza in sé e gli attraversamenti di confine: la transizione dalla biologia al silicio negli studi di intelligenza artificiale; gli intrecci ineludibili fra istanze razionali e istanze emotive che strutturano l’intelligenza umana e la capacità di prendere decisioni; il pericolo di considerare le intelligenze animali “altre” come “semplici” o “inferiori”, quando si tratta invece di esplorazioni adattative alternative.

Lei ha pubblicato Creazione senza Dio (Einaudi) dove afferma “Darwin ci ha insegnato una possibilità radicale: quella di concepire le origini della specie umana in termini esclusivamente naturali e con gli strumenti della scienza, prescindendo completamente da cause trascendenti o finalistiche”. Perché possibilità?
Perché non è una necessità filosofica. La spiegazione evoluzionistica non è una prova scientifica né dell’esistenza né dell’inesistenza di entità sovrannaturali o di divini “progettisti”. Darwin ci consegna una possibilità radicale e inedita: quella di considerare qualsiasi principio finalistico, qualsiasi provvidenza, qualsiasi architetto celeste del tutto inutile per comprendere la storia naturale e il nostro ruolo in essa. Ma rendere superfluo il ricorso a un’idea per comprendere la realtà naturale non implica che quell’idea sia necessariamente e una volta per tutte falsa. Sul piano delle convinzioni personali e delle credenze, possiamo fermarci a ciò che Darwin e gli evoluzionisti ci raccontano – cioè avvalerci della “possibilità” filosofica del naturalismo e dell’autonomia e sufficienza della comprensione scientifica - oppure ritenere, come molti scienziati credenti fanno, che tutta questa vicenda terrena sia stata voluta o creata o pensata all’inizio. Ciò che conta è non tentare di spacciare per scienza ciò che scienza non è, oppure entrare nel merito del dibattito scientifico sulla base, per esempio, di principi teologici che nulla hanno a che fare con lo stato dell’arte della ricerca sperimentale in corso.

Prescindere da cause trascendenti o finalistiche, implica la responsabilità verso tutto quello che facciamo, una responsabilità etica che è alla base anche del metodo scientifico.
Per questo trovo scorretto che la possibilità filosofica del naturalismo sia spesso discussa a partire da una preconcetta svalutazione di tipo morale. Quando si afferma che chi crede nelle origini esclusivamente naturali della specie umana, attraverso il caso e la selezione naturale, sta addirittura minacciando “i fondamenti della dignità umana” non si sta utilizzando un argomento filosofico, ma un’aprioristica squalificazione morale dell’interlocutore. Non ci può essere confronto su questo terreno. Per dialogare bisogna riconoscere quanto meno la plausibilità della posizione dell’altro. Un’etica naturalistica non solo è possibile, ma è anche credibile, forte e indipendente. Se io penso di essere il figlio di una lunga catena di eventi contingenti, che avrebbero potuto benissimo condurre da un’altra parte, ne deduco un’alta considerazione della mia presenza qui e ora. Se siamo una presenza così contingente, siamo anche una presenza preziosa, che ci consegna un impegno di libertà, di solidarietà e di responsabilità al contempo.

Scienza e filosofia, due mondi ormai incapaci di comunicare. Sono convinto, da filosofo, che la colpa sia nostra: ci siamo quindi buttati nel nichilismo e fatti assordare dalle sirene del relativismo.
Più che una questione generale di prospettive nichiliste o relativiste, penso che sia un problema di metodo e di pertinenza. In Italia molti filosofi si dilettano ad agitare lo spettro astratto e indefinito della “Tecno-scienza”, senza mai impegnarsi in una definizione precisa, in un’analisi pertinente, in almeno qualche studio di caso dal quale poter cominciare a discutere. Siamo affascinati da maestri di pensiero che si tengono sempre sulle generali, che partono da premesse apparentemente indiscutibili, che volteggiano attorno a meta-concetti e a meta-teorie, oppure che tornano e ritornano sui soliti snodi storiografici. Sembra così che in Italia l’emergenza nazionale sia diventata lo “scientismo”, o il “fondamentalismo scientista”, un ossimoro senza senso con il quale si trasforma in spauracchio generalizzato la posizione di una minoranza di scienziati e di filosofi. È normale in quest’ottica che la scienza sia ritenuta poco importante e poco pertinente, perché quella ti obbliga invece ad entrare in profondità e a confrontarti con incessanti novità emergenti. Ma è un’occasione perduta, un grave ritardo che stiamo accumulando rispetto ad altri paesi, perché oggi la riflessione sui grandi temi filosofici della modernità, sulle grandi domande classiche della filosofia non può prescindere da un’attenta considerazione dei risultati più recenti della ricerca scientifica.

Vien da se citare Kant: “L’illuminismo é l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità é l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro”.
Penso che l’insegnamento di autonomia che traiamo dalla scienza abbia molto a che fare con i fondamenti della democrazia e della laicità: il ruolo cruciale del dissenso; la continua messa in discussione delle autorità consolidate, sia interne sia esterne alla scienza; la dialettica con i propri stessi limiti da cui nasce la critica e la crescita della conoscenza; lo slancio verso l’ignoto, verso ciò che ancora sfugge alla conoscenza; la rincorsa apparentemente senza fine che si genera quando una risposta, una scoperta scientifica, inevitabilmente, anziché placare il desiderio di conoscenza apre nuove domande, svela altri aspetti della natura che nemmeno sapevamo di non conoscere. Non riesco a trovare migliore antidoto ai fondamentalismi e agli integralismi che ci circondano. Usciamo dallo stato di minorità quando rinunciamo a rifugiarci nei lidi rassicuranti del dogma e dell’ideologia, per affidarci a una ricerca continua.


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