TEATRO MATERICO A CASTEL GOFFREDO

di Fabrizio Migliorati

Un dialogo silenzioso fino al 7 ottobre nei locali della Galleria Giuseppe Bazzani a Castel Goffredo. Dialogo, ad un primo livello, perché due sono gli artisti che hanno presentato le loro opere ma il “discorso fra” si innalzava ad un secondo livello, inerente le opere d’arte stesse, le creature uscite dal lavorio creativo. Sculture e dipinti obbligate ad un confronto che si è rivelato silenziosamente proficuo. Nicola Biondini, mantovano classe 1976, ha presentato i suoi ultimi lavori. All’entrata ci accoglieva un Sancho Panza che idealmente vestiva i panni di cicerone, attraverso il volgere del suo sguardo verso la prima “navata” della galleria ma con un’espressione più vicina ad un vecchio seduto al bar, intento a giocare a briscola, che ad un’autorevole guida. L’imponente Rituale I, un lottatore di sumo, sembra pacificamente tenderci la mano, ma cascare in questa trappola può essere fatale. Dietro ad un semplice gesto da bonario grassone si cela una forza espressa ora in potenza ma è la sua attuazione a provocare timore. Gli attori del suo “teatro dell’umor nero” sono presenze singole, uniche, ermeticamente separate dalle altre.
Anche quando le figure sono due, tra loro vi è un rapporto, ma questo è prosciugato dalla comunicazione. Anime divergenti, proiettate verso prospettive diverse, ma unite dalla stessa condanna. Oltre alla magnifica e grandiosa opera Adamo ed Eva, rappresentante il fulcro dell’esposizione, alcune figurine catalizzavano l’attenzione dello spettatore. Sono le opere del ciclo dei Cappotti, sui quali ha riflettuto Luca Cremonesi nel catalogo. Ogni modo di vestizione dichiara qualcosa di nostro, di unico: dichiara il nostro stile. Un’affermazione della propria persona che agisce nel campo della solitudine. Come a dichiarare: ci sono anch’io e non sono come voi. Parlavamo di dialogo, di teatro. Un dialogo chiama qualcun altro. Ecco allora Sauro Serrangeli, monteluponese annata 1957. Una rappresentazione teatrale necessita tanto di attori quanto di scenografie. Ed ecco i suoi lavori. La sua poetica si esprime attraverso la grande dimensione. Le opere, come scritti trasportati in grafiche pastosità, inondavano la galleria. Il suo segno non può essere discreto, non può limitarsi a piccole superfici poiché sarebbe incompleto. Il suo calligrafismo è portato agli eccessi: quasi mai vi sono grandi campiture monocromatiche. È la iterata e vitale costura di piccoli segni che necessitano di quello vicino, la loro è una necessaria condizione di esistenza. La stratificazione segnica è impressione di profondità, ma di una profondità non meramente ed immediatamente prospettica. Si tratta di una dimensione cha ha un’altra natura. Nella serie Sertum Serrangeli arriva all’effrazione: la tela subisce una violenza sessuale che la riduce a brandelli. Ma le strisce ottenute vengono reinserite nel quadro creando un intreccio che va a sommarsi a quello coloristico del primo impianto. Infilzato è il corpo del Cristo offeso e corrotto. I pezzi di legno rimangono imprigionati nella carne oramai morta. Il viso del Redentore sembra emergere dal vorticoso circolo di segni e cose. Come una sindone. O un’epifania.


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