LA CENA DI ETTORE SCOLA
QUANDO L’ARTE SCEGLIE LO STEREOTIPO

di Dą(vide) Bardini

Questa riflessione nasce dalle serate curate da Ilaria Feole dedicate al cinema per l’Associazione Culturale Frammenti. Nel 1998 un collaboratore del regista Ettore Scola chiama al telefono Vittorio Gassman, Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli, Fanny Ardant, Eros Pagni, Giorgio Tirabassi e altri della crème attoriale italiana e non, proponendo loro un copione molto interessante. L’idea del regista è di mettere in immagini la serata in un ristorante romano, circumnavigando con la cinepresa, di tavolo in tavolo, le storie dei presenti, in tempo quasi reale. La mise en scène è un’impresa ardua: due ore di riprese nello stesso ambiente, senza possibilità di buchi narrativi, senza soluzioni esterne o ellissi temporali significative: solo lo scorrere del tempo e i dialoghi durante una cena. Varie sono le storie che si intersecano e ancor di più i caratteri distintivi (parecchio stereotipati) dei presenti; c’è la famiglia “giappo” che ovviamente scatta fotografie, il complessato che dà corda ad un mago, il professore che “se la fa” con la studentessa, il cuoco comunista, il cameriere “sciupafemmine”, la donna d’affari come sempre sola, emancipata e dal carattere forte, una famiglia allo sfascio, una madre con la figlia che le rivela la vocazione clericale, e molti altri. Tutti i presenti hanno quasi la stessa importanza nella narrazione e, parimenti ,nessuno ce l’ha (citando pindaricamente Full Metal Jacket: “Qui vige l’uguaglianza, non conta un cazzo nessuno!”). Forse questa scarsa attenzione ai dettagli, causata dall’impresa di rappresentare una ventina di personaggi in un luogo e in un tempo ristretti, può essere considerata un limite alla pellicola, ma io credo che, in questo, Scola sia riuscito bene. E’ infatti, a mio parere, una forza del regista, un plusvalore applicato al concetto di regia, il decidere deliberatamente quanto penetrare nell’essere dei personaggi e credo permetta di sentirsi, dietro la cinepresa, assolutamente padrone del film. Certi sono trattati, ovviamente, in maniera più distintiva e serrata d’altri. La Ardant per esempio, che nel film è titolare del ristorante, è seguita spesso dalla camera da presa nelle sue brevi ma frequenti camminate tra la cucina e la sala dei tavoli e ci è lasciato intendere parecchio della sua vita; interessante notare che, nel suo caso, il regista ci permette di scoprire addirittura il tradimento che la donna perpreta al marito e lo fa con una delicatezza cinematografica soffice e bellissima. Le scarpe nuove e rosse della donna sono metafora sottile di una nuova fanciullezza, di una nuova possibilità. Ci si immagina che si trovi a fare i conti con un’età non più giovane e con un uomo certamente più affascinante e travolgente del povero marito malato. L’amante poi, “(in-)visibile” solo in due telefonate, è una presenza fantasmagorica ma presentissima, perché lascia nell’ambiente il profumo della felicità istintuale, fuggevole, della donna. La negativa ambiguità del film, basato su stereotipi della vita italiana, si sviluppa tutta in un finale improbo e sinceramente brutto tramite un paio di “vezzi” di regia (un oscuramento del campo rappresentante il dormiveglia di una signora e, ancora più irritante, la rappresentazione dello sguardo di un bambino tramite immagini di videogiochi: inutili, insignificanti e irritanti). Tuttavia, visto che ho apprezzato il film, è importante parlare della figura del maestro, impersonata da Gassman, in una delle sue ultime comparse sullo schermo, che è di una bellezza e di una completezza quasi estetica, estasiante, sublime. Il suo personaggio, colto poeta in veneranda età, che si delizia guardardo come solo un vegliardo saggio può le figure che gli stanno intorno, è il vero “motore” della narrazione. Con una sua frase dà probabilmente il senso del film tutto: “Il cibo e le bevande simboleggiano la stessa condizione umana. Il consumo di un pasto a una tavola qualunque contiene qualcosa che ha più a che fare con il cuore che con lo stomaco”.


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