INTERVISTA A PIERGIORGIO ODIFREDDI

di Luca Cremonesi

Piergiorgio Odifreddi è matematico, logico, saggista e storico della scienza italiano, di fama internazionale. Laureato in matematica a Torino nel 1973, dal 1983 al 2002 ha insegnato in Italia, negli Stati Uniti e in Russia. Dal 2001 è professore ordinario di logica matematica all’Università di Torino. Ha scritto come opinionista/recensore per numerose riviste scientifiche fra cui le Scienze, oltre ad aver collaborato con vari quotidiani come la Repubblica, La Stampa e con il settimanale L’espresso. Radio Tre, Raidue e Raitre hanno ospitato alcuni suoi interventi in varie rubriche scientifiche. Dal 2003 Odifreddi è membro del comitato di presidenza dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Lo ringraziamo per aver accettato di dialogare con noi.

Perché le biotecnologie fanno così paura?
Credo che sia la stessa paura che si ha nei confronti del buio: non appena si accende la luce svanisce, ma fino a che essa rimane spenta si teme che ci possa essere tutto il peggio. Con le biotecnologie in particolare, ma con la scienza in generale, è la stessa cosa: poiché non la si conosce, fa lo stesso effetto del buio. Ma non appena si accende la luce le cose acquistano il loro giusto colore: il che non significa che sia tutto buono o tutto accettabile, ma che i rischi e i pericoli sono precisi e circoscritti, e dunque affrontabili e controllabili.

Cosa risponde a chi invoca l’irrazionale come significato profondo dell’esistenza umana?
In parte ho già risposto. Ma aggiungerei che a farlo sono spesso, se non sempre, coloro che conoscono solo quello, e che avversano il razionale perché non conoscono nessuna delle sue espressioni, dalla matematica alla scienza alla filosofia analitica. Spesso invocare l’irrazionale è semplicemente una scorciatoia per dire “non ho voglia di studiare e di informarmi”, e preferisco dire cosa mi passa per la testa senza pensarci.

Spesso ciò che è incomprensibile riscuote successo; concetti confusi vengono dissimulati da un parlare che pretende di essere complesso, mentre è soltanto privo di senso. Questo era una delle finalità dell’affaire Sokal…
Nella primavera del 1996 il fisico Alan Sokal mandò alla rivista Social Text un lungo articolo intitolato Trasgredire le frontiere: verso un’ermeneutica trasformativa della gravità quantistica, che fu pubblicato benchè fosse infarcito di assurdità messevi a bella posta, mascherate in ‘filosofese’. La conclusione che Sokal e altri trassero dalla vicenda fu che, poiché certa filosofia non si distingue dalla sua parodia, non è una cosa seria. Alla sua beffa Sokal fece seguire Imposture intellettuali: un libro che mostrava con dovizia di citazioni come il pantheon della filosofia postmoderna francese fosse colpevole di manifesta ciarlataneria. Ci furono reazioni e dibattiti ovunque, ma poiché gli esempi del libro erano tutti tratti dalla Francia, l’episodio potè essere facilmente rimosso in Italia. Lo scopo primario è invece la documentazione del proliferare delle immagini negative della scienza e della razionalità, che hanno da un lato generato timori infondati riguardanti i supposti pericoli derivanti dalla natura stessa della conoscenza scientifica, e dall’altro lato hanno coagulato le simpatie popolari su tali timori. Si tratta di alcune tematiche predilette da certi intellettuali italiani, conservatori o progressisti, così come da autorevoli rappresentanti della fede cattolica: primo fra tutti il nuovo papa Benedetto XVI, che ne ha parlato esplicitamente nella sua ultima omelia da cardinale, e del quale il libro analizza alcuni recenti pronunciamenti sulle ‘’patologie distruttive della ragione'’, dal nucleare alla genetica.

Perché, invece, l’incomprensibile della scienza non attrae, ma allontana e insinua paure?
Perché qui si tratta di un incomprensibile diverso: si sa benissimo che i simboli delle formule matematiche o scientifiche, o i ragionamenti delle dimostrazioni dei teoremi, non sono messi a caso, e che dunque non se ne può avere un’opinione disinformata. Si possono soltanto studiare, e questo richiede sforzo assiduo e prolungato: è più facile rivolgersi all’incomprensibile che non può essere compreso per sua natura, che all’incomprensibile che non è compreso per nostra ignoranza.

Molti pensano che la spiegazione dei fenomeni finisca per togliere loro fascino e mistero: perché?
Perché il mistero deriva dall’ignoranza: non c’è mistero in ciò che si conosce, come non c’è mistero nell’esibizione di un prestigiatore che usa trucchi che si conoscono. Naturalmente, il mistero c’è anche nella scienza, ma riguarda appunto ciò che ancora non si conosce. O il perché le cose siano come sono: un problema che, come è noto, non è scientifico ma metafisico.
Non rischia di essere contraddittorio cercare una risposta in un mistero che ha la pretesa di spiegare misteri che potrebbero trovare soluzioni più sensate?

Invocare dio come risposta di qualcosa, è soltanto un modo diverso per dire che non si conosce (ancora) la risposta. Come diceva Stanislav Lem, lo scrittore di fantascienza: “dio è un mistero totalmente invisibile, invocato per spiegare un mistero totalmente visibile”. Il vero mistero non è che ci siano misteri, ma che qualcuno di questi a volte venga spiegato: gli altri rimangono, temporaneamente o permanentemente, nella “mente di dio”, cioè al di fuori della nostra.

Di recente c’è stato un interessante dibattito fra lei e il filosofo Emanuele Severino, può, brevemente, riassumerci la vicenda?
Severino, in un intervento sul Corriere della Sera, cita Russell a (s)proposito del fatto che ‘’la relatività getta ben poca luce su controversie secolari come quelle tra il realismo e l’idealismo'’. Ma che bella scoperta! La cosa è evidente, e significa soltanto che una teoria che tratta dello spazio e del tempo potrà forse avere conseguenze sulle controversie secolari a proposito dello spazio e del tempo, ma certo non su altre: e, infatti, era appunto della filosofia del tempo che parlavo, quando dicevo che se essa non tiene conto della relatività rischia di essere soltanto letteratura fantastica. Un’altra bella scoperta di Severino sarebbe che la scienza ha bisogno della filosofia per chiarire il senso delle categorie filosofiche da cui procede e su cui si fonda. Severino, e con lui buona parte dei continentali odierni, sembra dimenticarsi che ‘’senza la scienza la filosofia è vuota'’. E, soprattutto, che una filosofia che pretenda di ‘’chiarire il senso'’ di cose dette in una lingua che neppure capisce, rischia di cessare di essere un ‘’amore per il sapere'’, per diventare invece un ‘’sapere amatoriale'’. Non era così, naturalmente, per i filosofi del passato e non è così neppure per molti filosofi del presente. È invece così non soltanto per Severino e i suoi discepoli, che parlano continuamente di ‘’tecnica'’ confondendo fra loro cose diversissime quali la matematica, le scienze e la tecnologia, ma anche per una vasta schiera di filosofi nostrani, da Massimo Cacciari a Giovanni Reale, ai quali si addice perfettamente il giudizio di Max Born: ”I filosofi, muovendosi in mezzo al concetto di infinito senza l’esperienza e le precauzioni dei matematici, sono come navi immerse nella nebbia in un mare pieno di scogli pericolosi, e ciononostante felicemente ignari del pericolo”.


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