INTERVISTA AGLI ALL BUT ONE

di Damiano Cason / damiano@grassiellenti.it

Non è facile da musicista (quindi già carico di schemi e preconcetti sull’attività) intervistare altri musicisti. Per offrirvi un’intervista (che nel concreto è una cena con fagioli, pancetta e molta birra) più leggibile, la renderò sottoforma di botta e risposta. Gli All But One sono Andrea Bogarelli (voce), Marco Monici (chitarra/voce), Giacomo Marchi (chitarra/voce), Francesco Saviola (batteria) e Matteo Capacchione (basso); si sono distinti negli ultimi mesi per l’umorismo trash-cabarettistico del bassista durante le esibizioni live (tra le quali ricordo una sfida sul palco tra due celebri ubriaconi della zona) e, in queste ore, per la totale mancanza di sintonia tra il chitarrista (che dice di essere stressato dalla giornata, ma probabilmente ha già bevuto qualcosa di troppo) e il resto della band (e del mondo) sulle questioni che vengono poste nell’intervista. Come avrete notato, nonostante siano di Castiglione, gli All But One si sono scelti un nome inglese; vediamo perché.
Mony: “Abbiamo scelto di cantare in inglese più che altro per un fattore musicale…”. Damiano:“Mony aspetta, vi ho chiesto il perché del nome in inglese, non perché cantate in inglese”.
Giacomo:“Quando abbiamo scelto il nome ci eravamo formati già da un po’, e la necessità cominciava ad essere impellente, quindi non c’è stato un ragionamento particolare…”. Savio:“Significa “tutti tranne uno” e si riferisce semplicemente al fatto che anche nella scelta del nome c’era sempre uno che non era d’accordo”.
D:“Bene, è evidente che c’è un nesso tra l’avere un nome in inglese e cantare in inglese; quindi visto che Mony voleva rispondere a questa domanda, ora può parlare”. M:“Dicevo: cantiamo in inglese per un fattore prettamente musicale; riteniamo che si possano ottenere, relativamente al nostro genere, assonanze migliori di quelle che riusciremmo ad ottenere utilizzando la lingua italiana.” D:“Ritenete che sia impossibile ottenere certi risultati in italiano, o solo più difficile?” Andrea: “Sicuramente è possibile raggiungere certi livelli anche con l’italiano..” G:“..ma riteniamo che lo standard giusto per il nostro genere sia quello inglese”. D:“Quindi, siccome penso sia appurato che il pubblico italiano ci capisce ben poco di inglese, possiamo dire che viene prima l’estetica del contenuto in sé?” G:“In un certo senso sì, ma a livello compositivo abbiamo comunque un occhio di riguardo per i testi.” D:“Cioè le canzoni nascono dal testo?” A: “Per la maggior parte no; in genere ci fermiamo a fare delle jam in sala prove su un giro di accordi che magari qualcuno aveva già in mente; poi, prova dopo prova, ognuno aggiunge del suo”. Capa:“Di solito Giacomo arriva con un giro di chitarra e un abbozzo di testo, noi ci lavoriamo sopra, Mony si lamenta del risultato. Dalle prove successive comincia ad uscire qualcosa di buono.” M:“Non siamo uno di quei gruppi dove uno arriva e ha già l’idea della canzone completa in testa, ci piace fare tutto insieme.” D:“Scrivete insieme anche i testi? Questa è una cosa che personalmente non sono mai riuscito a concepire.”
G: “No, i testi in ogni caso li scrivo in maggior parte io, soprattutto in momenti in cui sono un po’ malinconico.” D:“In genere sono quelli i momenti in cui si ha qualcosa da dire, così ci insegna la storia no?” M:“Secondo me ci sono molte cose da dire anche quando si è felici.” D:“Certo non possiamo escluderlo, ma probabilmente il motivo principale per cui capita meno spesso è che quando si è felici si pensa a vivere quel momento di felicità (e quindi ci si concentra più su se stessi che su una creazione dal nulla quale l’arte), mentre quando si è infelici si cerca un modo per estirpare l’infelicità e questo modo può essere ad esempio, tra i tanti, scrivere una canzone…” G:“Sono d’accordo.” D:“L’estetica di cui parlavate è fine a se stessa o le canzoni vogliono anche lanciare dei messaggi?” M:“Sicuramente le canzoni sono apartitiche.” D:“Per la seconda volta ti devo ammonire: nella mia domanda non ho fatto alcun riferimento alla politica; per “messaggio” intendo la speranza o capacità di muovere una persona a cambiare modo di comportarsi (in qualsiasi ambito) o a confermarle che sta facendo la cosa giusta, magari immedesimandosi nella storia della canzone.” A:“Sì, ci sono dei messaggi. Le nostre canzoni parlano soprattutto di sentimenti, quindi spesso lasciano trasparire la necessità di reagire a certe grandi delusioni.” C:“Ad esempio “Lie is in BeLIEving” per noi può significare espressamente “pensare prima di parlare”..” D:“Tra i vostri progetti futuri rientra il successo?” M:“La nostra volontà principale è quella di far rimanere qualcosa, soprattutto per una soddisfazione personale. Vendiamo il CD (“I know you would turn back the clock…”) ad un prezzo talmente basso da andare in perdita. Abbiamo scelto di spendere per realizzare un buon prodotto perché la qualità aiuta l’ascoltatore a comprendere le nostre intenzioni. In Italia, in ogni caso, le cose vanno male.” C:“Ma non bisogna essere troppo pessimisti, non si può pretendere che la gente compri senza conoscere. Bisogna avvicinarsi al pubblico e proporre il proprio lavoro; le persone capiscono che c’è dietro un certo impegno e, se va bene, rimangono sorprese positivamente dal risultato.” D:“Bene. Andiamo all’argomento caldo degli ultimi tempi. Sulle vostre locandine si legge la parola ‘EMO’. Perché tutti ce l’hanno a morte? Voi cosa dite? Vi piace definirvi?” M:“Le etichette sono sbagliate in generale, sono concetti non definibili in termini pratici. Non si può definire un genere musicale.” C:“Tutti etichettano, è nella natura umana.” G:“Quindi è utile ad avvicinarsi ad un certo tipo di pubblico, che dovrebbe essere il più adeguato.” A:“Molti gruppi sbandierano ai quattro venti di odiare l’emo, e poi in realtà la loro musica ci si avvicina molto…” (durante l’intervista viene anche citato un esempio, ma mi pregano di non scriverlo: Mony non condivide) C: “Siccome è il genere che va di più in questo momento, chi non lo fa tende a prendere le distanze. Ma è sbagliato accantonarlo solo perché è inserito nel contesto sbagliato.” M:“Come per tutte le altre cose, è una questione di ipocrisia.” G: “La critica dell’emo ha come obbiettivo lo stereotipo che ne è nato: cioè il ragazzo con la frangia che scrive banalità. Colpa di un certo tipo di marketing targato USA.” D:“Penso che tu abbia inquadrato bene la questione: non credo che a qualcuno interessi criticare un certo genere di musica, per quanto possa fargli schifo; più ragionevolmente si può criticare il marketing che ci sta dietro. Il mio rammarico è che certe critiche a questo establishment giungano da chi, nel proprio piccolo, riesce a fare di peggio.” A:“In ogni caso è un altro modo di farsi pubblicità: invece di portare una bandiera, portare un’anti-bandiera.” S:“E a noi, questa bandiera, non interessa difenderla.”
Per maggiori informazioni: www.allbutone.it


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