IL SEGRETO DI POLLY JEAN

di Giovanni Caiola / underdog1982@libero.it

Buone notizie: è tornata in piena forma Polly Jean Harvey. Ci speravo poco dopo le due ultime sbiadite prove discografiche che ci aveva offerto: il pop-rock innocuo di Stories From The City, Stories From The Sea (2000) e l’alquanto noioso lo-fi di Uh Huh Her (2004). Artisticamente parlando l’avevo ormai quasi data per spacciata e dire che dischi come Rid Of Me e To Bring You My Love (rispettivamente ’93 e ’95) li ho amati, ed ancora li amo, moltissimo. Avrei scommesso poco sulla sua rinascita e invece l’inquieto folletto di Yeovil (Inghilterra) ha sfornato un disco pazzesco, di quelli da perderci la testa e le bave. White Chalk – prodotto dalla Nostra assieme ai fidi Flood e John Parish (se vi volete un po’ di bene procuratevi il suo How Animals Move del 2002) – presenta undici brani straordinariamente incantevoli che s’imprimono lentamente nella memoria e nel cuore per presumibilmente non uscirne mai più: un disco che non seduce al primo approccio, anzi subito sembra ostico e monocorde, ma più la frequentazione aumenta più se ne ricava piacere. Un disco “antico” in questa sua richiesta di tempo all’ascoltatore per entrarvi pienamente in sintonia e a tal motivo tanto più fascinoso: non è forse il corteggiamento una delle dinamiche più belle dell’amore? L’ascolto riserva varie sorprese la più grande delle quali sta subito all’inizio, siccome a questo giro non è la chitarra elettrica lo strumento principe delle canzoni bensì il pianoforte, che Polly ha imparato sola soletta a suonare. E dai tasti bianchi e neri escono melodie conturbanti che non rinunciano ad un forte e disturbato senso ritmico; se pure c’è della dolcezza certo non si può dire sia assente l’inquietudine negli spartiti. A tratti si ha addirittura l’impressione di essere entrati anche troppo all’interno dei sentimenti privati dell’artista, tanto brucianti sono le interpretazioni. A rendere l’album ancora più immenso concorre poi un’articolazione superba: la The Devil delegata ad aprirlo suona come la vita nella più scura delle notti dell’anima e perfetta è l’accoppiata con la seguente Dear Darkness nella quale a dispetto del titolo un filo di luce nel fosco paesaggio alfine filtra, Grow Grow Grow dispensa malinconia di grana finissima laddove When Under Ether gonfia sommessamente il petto, se la canzone che battezza il tutto e la commovente Broken Harp spargono sapori ancestrali Silence e To Talk To You (dedica alla nonna scomparsa) dal canto loro sono frammenti di presente capaci di ridisegnare le ere fuggite, l’aria fintamente sbarazzina di The Piano è temperata dalla crepuscolare Before Departure e dalle urla – di rabbia? di dolore? di gioia? – che chiudono The Mountain e il disco. Stupisce la voce della Harvey, espressiva come forse mai prima d’ora e in grado di raggiungere vette inenarrabili di tremenda realtà, di estasi in disfacimento. Un disco magnifico da tenere sempre a portata di mano e da regalare a chi sul serio ci sta a cuore. Uno dei dischi più straordinariamente belli del decennio che stiamo vivendo.
Un futuro classico assoluto.


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