di Dą(vide) Bardini


Da più di dieci anni, nella grande Los Angeles, Max porta a destinazione i clienti che salgono sul suo taxi. La sua è una vettura diversa dalla maggior parte delle altre; è sempre pulita ed ordinata, quasi il protagonista voglia regalare al proprio lavoro maggior dignità. Max è un lavoratore serio e puntuale che conosce il suo mestiere come pochi, arrivando addirittura a prevedere i minuti da impiegare per giungere a una qualunque destinazione. Una notte, sul suo taxi, sale un cliente particolare e la sua vita cambia bruscamente… Collateral è un film troppo bello per essere spiegato e raccontato; interpretato da un perfetto Cruise ed un incredibile Jaime Fox, il film risulta essere null’altro che una geniale e spaventevole metafora dell’esistenza. Michael Mann gira un film con uno spessore intellettuale notevole denso di una forte carica autoriale: gli zoom per esempio, per di più senza portata semantica, quasi prettamente di natura allusiva, espressiva. Il restringimento del campo è sempre inatteso ed inutile al fine esplicativo, non ci permette infatti di captare particolari altrimenti bui; serve prettamente per segnalare l’esistenza della camera, la presenza del cinema, l’occhio del regista e dello spettatore.
Collateral è una pellicola notturna, l’illuminazione è regalata dai lampioni che fan scivolare le loro luci sul metallo e sul cemento della città, i rumori sono le automobili, le frenate e naturalmente i dialoghi tra Max e Vincent, vero cuore del film. Il senso della vita, di un inutile quotidianeità dalla quale tanto si vorrebbe evadere ma alla quale siamo inesorabilmente ed indissolubilmente legati, la relativa importanza della nostra vita, piccoli punti nell’universo. L’unico modo per liberarsi dalla mediocrità è abbracciare il nulla dimenticando le certezze che abbiamo e, iperbolicamente, il nostro modo di ragionare. Max, in fondo, ama il suo lavoro ed è consapevole che per tutte le notti della sua vita monterà su quello stesso taxi, lo pulirà per bene e farà il suo compito nel migliore dei modi, cercando di darsi la massima dignità; chiamato a ragionare dal suo passeggero sulla piccolezza dell’esistenza, Max causerà deliberatamente un incidente, unico sistema per ”liberarsi” dal giogo di Vincent. Nella pellicola si è colti da un forte senso d’angoscia, aumentato dallo stile molto personale di Mann, che riesce in alcuni attimi, a far assaporare quella labile ma tangibilmente ingombrante nausea che è in Sartre e nei maggiori dell’esistenzialismo. Una sequenza da ricordare: Max frena l’automobile per permettere ad un coyote di attraversare la strada; silenzio, i due sguardi che s’intrecciano ed una melodia azzeccatissima… Riflessione obbligata. Tra Max, onesto lavoratore con una vita normale e con qualche irrealizzabile sogno, e Vincent, un gangster senza scrupoli, si tesse un rapporto incredibilmente intrigante. I due si avvicinano, si temono, si scontrano, ma in fondo si assomigliano… Si permeano quasi, in quel punto dove tutti i binari della vita si congiungono, dove solo il concetto di uomo-animale pensante unifica universalmente la civiltà.
Intellettuale, esistenziale, nichilista.


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