PIER PAOLO PASOLINI

di Luca Cremonesi e Leonardo Tonini

La notte del 2 Novembre 1975 muore Pier Paolo Pasolini. Il suo corpo letteralmente massacrato verrà ritrovato sul litorale di Ostia. La storia ci consegna il suo assassino: Pino Pelosi. Le carte processuali ci consegnano una certezza: Pelosi non ha agito da solo, con lui c’erano altre persone. L’Italia vittima senza ancora saperlo della sindrome Codice da Vinci – per la quale ogni fatto ha un’essenza esoterica – inizia così a fantasticare allargando la vicenda come i cerchi nell’acqua dopo il lancio di un sasso. Si sa, più ci si allontana dal centro più la verità svanisce e perde intensità. Passano trent’anni e tutto si dimentica: i colpevoli, i complici e la vittima. Pasolini fu poeta, scrittore, regista, drammaturgo, pittore, critico e giornalista. In una sola parola egli fu un intellettuale, l’ultimo grande intellettuale italiano per la precisione, se con questo termine intendiamo, con Sartre, qualcuno che s’immischia in ciò che non lo riguarda e che ha la pretesa di contestare l’insieme delle verità ricevute e dei comportamenti che a queste s’ispirano in nome di una concezione globale dell’uomo e della società. L’obiezione che si può muovere a Pasolini è questa e cioè che le sue opere sono complesse e richiedono una preparazione che spesso i destinatari non hanno per varie motivazioni. E qui sorge il problema: se Pasolini, da intellettuale, si rivolge ai poveri e alla classe operaia perché l’accesso alle sue opere è difficile proprio per queste persone? A quest’obiezione rispose egli stesso in un’intervista del 1969 (Pasolini rilegge Pasolini, Archinto 2005, libro con cd): “Voglio dire che la letteratura anche in Italia, come già negli Stati più avanzati, comincia a essere minacciata dall’industria culturale, cioè dalla mercificazione. La mia opera diventerà sempre più complessa per resistere alla mercificazione, alla trasformazione di tutto quello che si produce in massa, pubblico compreso”. È dunque una ribellione alla mercificazione e all’abbassamento del livello culturale che la società delle merci impone al sapere che caratterizza parte della produzione di Pasolini. Mi sovviene una scenetta televisiva degli anni ’60 in cui Raimondo Vianello, giovane autore televisivo, discute il suo copione con Aldo Fabrizi il quale gli rammenta come la massa non sia in grado di comprendere un testo così raffinato. La gente ha bisogno di qualcosa di frivolo e soprattutto deve ridere. Vianello risponde: “Bisogna chiedere alla gente cosa ne pensa prima di parlare al posto di queste persone”. Pasolini si colloca qui: si rivolse direttamente alle persone per sapere cosa ne pensavano della sua opera. Rispettò la gente perché ebbe stima della loro intelligenza senza mai concedere nulla a chi, dall’alto della sua posizione, disprezza nel profondo chi non conosce sostenendone la non volontà di conoscenza (è il caso esemplare di rubriche quali Gusto e Medicina 33, per citarne due, che sottraggono spazio alle notizie in nome della leggerezza che caratterizza i desideri degli spettatori). Quella di Pasolini fu un’eresia resistente su due fronti: il primo intellettuale, per la scelta dei temi e dei contenuti, e il secondo stilistico, per il mezzo e il modo con cui scelse di comunicare. Questo lo rende l’ultimo puro – se togliamo a questa parola ogni valenza conservatrice – intellettuale italiano. Chi, perciò, a trent’anni dalla sua morte ha raccolto la sua eredità in un’Italia che, come allora, è ammalata in modo ormai quasi irreversibile? La mia opinione è che solo due persone sono state, nel corso di questi tre decenni, all’altezza dell’insegnamento pasoliniano: Fabrizio De André e Adriano Sofri. Ho avuto la fortuna di vedere un concerto di De André (a Montichiari). Ero giovane e non capii nulla, ero lì per le canzoni. Il tempo mi ha aiutato condannandomi a una rabbia che mai troverà pace per l’occasione persa. Con De André inizia un rinnovamento che è proprio della contemporaneità. L’intellettuale alla Pasolini (e alla Sartre) parla al posto di qualcuno. L’intellettuale contemporaneo ha invece il compito di creare spazi per far parlare chi non ha la possibilità di farsi sentire. De André, da cantautore, diede voce alle prostitute, agli zingari, ai tossicodipendenti, ai barboni, ai falliti, a uomini e donne ai margini della società. Egli si colloca idealmente a metà fra Pasolini e un nuovo tipo d’intellettuale che in Italia ancora non esiste. Il mezzo di comunicazione utilizzato da De André fu la canzone. Non solo, a differenza di Pasolini De André (che con Massimo Bubola è autore della canzone Una storia sbagliata dedicata al poeta di Casarsa) fu un artista puro dove con puro s’intende la pregnanza artistica che caratterizzò tutta la sua opera. Pasolini spesso cercò di comunicare e denunciare qualcosa sfruttando il mezzo. Il prezzo da pagare fu, in alcuni casi, il venir meno della forma artistica, ma il mezzo spesso trascese le sue intenzioni (come nel teatro, in alcune poesie e in alcuni film, in alcuni romanzi) e il risultato sfocia nell’opera d’arte. In Italia, dicevo, non esiste ancora un intellettuale nel senso contemporaneo della parola, ma abbiamo avuto una commistione (De André) e abbiamo una variante raffinata che è un unicum irripetibile: Adriano Sofri. La sua condizione non gli permette di creare uno spazio per far parlare chi non ha voce. Lo ha fatto in passato e il suo volume Lo specchio di Sarajevo (Sellerio 1992) ne è la prova. Cerca, quando può, di far sentire la voce dei carcerati, ma è un’azione limitata causa la sua attuale condizione. Sofri ha così elaborato un nuovo modo d’essere intellettuale che declina l’eredità di Pasolini: crede nell’intelligenza delle persone e rigetta il meccanismo di mercificazione delle sue idee agendo direttamente sulla legittimità delle domande. Non solo, la colpa che sta espiando (che non è ciò per cui si trova in carcere) gli ha permesso di elaborare una riflessione che è naturalmente dalla parte dei deboli e degli oppressi contro chi trae vantaggio dall’impedire che nascano nuove domande. La differenza con l’intellettuale classico è nel fatto che Sofri non parla al posto di qualcuno, ma alla testa di ognuno di noi e cioè direttamente al nostro pensiero. Non è un compito educativo, come non lo era per Pasolini e per De André, e neppure curativo. Sofri guarda ai problemi e analizza le domande che da questi derivano. La sua azione è sulla natura delle domande, sul modo di porle e sulla legittimità delle medesime. In tal senso la sua prassi è (da) intellettuale. Sono pochi, in trent’anni, due casi… soprattutto perché si tratta di persone della stessa epoca e che hanno conosciuto Pasolini. Ecco perché sono parecchi i complici di quella notte sul litorale di Ostia e troppo pochi quelli che non hanno ucciso Pasolini.

Nell’area download è possibile scaricare un articolo di Adriano Sofri su Pasolini.


La grande letteratura nasce dalla convalescenza, dal limite tra salute e malattia, dalla lotta tra il corpo che vuole risanare e il desiderio di malattia dell’Io. In questa zona grigia di lotta tra Vita (mondo) e vita (Volontà) che sono due modi di fuggire la morte, nasce la prassi della più profonda e sincera creazione artistica. L’arte è quindi corpo, lotta col (proprio) corpo. Più in dettaglio la spiritualità è il sesso, la forma è l’organismo, il messaggio è il cervello, il senso è il cuore. Pasolini scrive il suo teatro nel ’66, tutto. Sei tragedie per guarire di una brutta infezione allo stomaco “che mi ha tenuto a letto per un mese”. Ci provava, con il teatro, fin dagli anni friulani, ma gli era rimasto dentro qualcosa che non si decideva a nascere. E quel qualcosa gli ha infine spaccato lo stomaco, sede dell’anima per i greci, e la lettura di Platone – nel letto di malato – gli ha reso lucida la mente fino alla visione. Visione, appunto, di un teatro arcaico, premoderno (lui che aveva tradotto l’Orestieade) - greco. Dopo la visione ecco l’orgia, cioè lo straripare della piena del desiderio a lungo contenuta. Niente di nuovo, si è trattato di far rivivere i tre grandi tragici ai tempi nostri, una ripetizione, ma senza imitazione e senza copiare, un plagio alla maniera di Barthes, per intenderci. Quella ripetizione senza concetto che genera la differenza, quella differenza che sola produce il nuovo che non tramonta, il sempre (più) nuovo col passare degli anni – il fuori moda, l’inattuale. Un teatro della parola che si contrappone al teatro del gesto o dell’urlo (alla Carmelo Bene) e al teatro della chiacchiera (il teatro borghese). Ma non tragedie borghesi, come lui stesso le definiva, ma più semplicemente aristocratiche, per pochi, per i pari all’autore. Teatro che tradisce le stesse intenzioni dell’autore convinto di fare un teatro contro il teatro e invece, per nostra fortuna molto oltre. Perché il limite di Pasolini era l’ansia di dire, di entrare in lotta, di contrapporsi al suo tempo. Ma l’intellettuale finisce dove comincia l’artista. Il primo è l’intelligenza e la cultura al servizio degli altri, mentre l’artista è divino e quindi stupido, poiché Dio non può essere intelligente: dono dato agli uomini per sopravvivere – cosa quanto mai lontana dall’idea di Dio. In questo senso Pasolini deve ancora morire, è ancora troppo vivo, vive fra noi l’intellettuale Pasolini, al giorno d’oggi, perché dopo di lui il diluvio, più nulla, perché la società italiana non è cambiata dai suoi tempi. Solo una volta morto, fra trenta o più anni, si potrà parlare di ciò che resta del poeta di La meglio gioventù,se fu vera arte e cosa fu di lui vera arte. Ecco che il teatro, nato nella convalescenza, momento di acuta sensibilità, ma di scarsa presenza (dell’Io), trascende e tradisce come poche altre opere le intenzioni dell’autore. Ed ecco le accuse di insostenibilità, di velleitarismo letterario, di bruttezza. Avevano ragione i detrattori di allora, avevano ragione i fischi alla sua prima regia (Orgia). Pasolini non aveva la stoffa di Ibsen, il teatro didattico non esiste (e lui che odiava la buona educazione così spesso ci cadeva nel didattico, come l’ingenuità di credere puro il povero). Però rimane il testo, come è rimasto Platone ed è scomparsa l’Atene che l’aveva prodotto. E il testo non è più Pasolini, è un qualcosa d’altro che ride delle volontà e dei desideri frustrati dell’autore. Il testo, le sei tragedie, sono qui, non dietro, ma davanti a noi e sono la cosa più rappresentata dopo Goldoni e Pirandello. Questa è la grande forza del suo teatro: il teatro per pochi eletti, il teatro incomprensibile e insostenibile è visto. Da gente che non ha conosciuto Pasolini, che non vede la denuncia della morte del teatro, della corruzione della società borghese, della ragione eretica del suo autore, ma vede del teatro che in Italia non è morto anche grazie a lui che tanto odiava il teatro. Già in Affabulazione, di e con Vittorio Gassman, si intuiva il tradimento, che la faccenda era scappata di mano all’autore. Ma come? Tu fai un teatro contro il teatro, per pochi eletti e poi lo recita un Gassman? L’idolo delle folle, l’attore primo e ottimo – e credi che la gente vada a vedere lui per vedere te? Non nel ’77, eri ancora troppo indigesto e troppo poco mito. Oggi il mito ti sequestra dalla nostra lettura, più che le tue opere vengono ascoltate le parole che su di te vengono dette. Il barbaro omicidio ti nasconde allo sguardo, ma il tuo teatro nessuno ce lo può togliere, perché il teatro si fa solo a teatro e nel buio della sala si è terribilmente soli.

Alcuni temi trattati di questo articolo nascono anche dalla lettura dell’interessante volume I teatri di Pasolini, di Stefano Casi, ed. Ubulibri, che consigliamo vivamente a chi sia interessato ad approfondire alcuni aspetti del teatro di Pasolini. L’ottima introduzione, a cura di Luca Ronconi, arricchisce la ricerca di Stefano Casi. Il volume dunque si presenta come un’ottima e consigliata introduzione (forse tra le migliori in circolazione) all’opera teatrale pasolinina.


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