DIPINGERE DI MUSICA,
CANTARE DI LETTERATURA

di Paolo Capelletti

Dovendo realizzare un’intervista ti auguri sempre che non ti venga imposto un incontro formale strutturato rigidamente su domanda e risposta, senza coinvolgimento attuale e dal minutaggio striminzito; quindi, quando gli Hemingroove (www.hemingroove.it) hanno risposto alla mia richiesta di disponibilità proponendo di passare una serata insieme, mangiando qualcosa tra un aperitivo e una birra, è facile immaginare che la mia prima impressione sia stata favorevolmente sorpresa. Così ci incontriamo tra amici, facendoci passare il tempo addosso senza ansie, con un brindisi e una sigaretta scaturisce una chiacchierata dai registri contaminati, dal più aulico al più colloquiale (ma mai banale), con il sorriso sempre sulle labbra, in pieno “Stile Hemingroove”, come tengono a sottolineare i protagonisti di questo progetto che, a proposito, vado a presentare: Fabio Baresi (voce, chitarra e percussioni), Antonio Fusco (basso), Giuseppe Nigro (batteria), Marco Prina (chitarra). Quattro individualità che non lasciano la parola, come spesso accade nei gruppi musicali, a un leader ma, notiamo subito io e Luca Cremonesi durante la serata, hanno impresso ognuna la propria impronta in una forte fusione di personalità, che fa parlare i nostri usando sempre il “Noi” e che mi ha convinto a far sì che, nelle prossime righe, le risposte le desse Hemingroove e non solo un quarto di esso.

Per cominciare, perché “Hemingroove”?
Com’è facile intuire, il nome nasce dall’unione di Hemingway e Groove, due concetti che guidano la nostra musica: Ernest Hemingway possedeva la qualità di “dipingere” in letteratura, rendendo immediatamente il sentimento che intendeva; “groove” dà nome all’ineffabile fenomeno che riempie l’aria quando la musica trasmette un’emozione, è una parola intraducibile, dal suono anglosassone ma che nasce, come sensazione, tra le popolazioni africane. Mettere in musica questi modi di emozionarsi è il nostro punto di partenza, non un programma definitivo.

Come arrivate alla composizione della vostra musica?
La cosa che abbiamo deciso fin dall’inizio è di mettere le cose in chiaro: ognuno di noi, in fase di creazione e di prova, sa di essere in diritto e in dovere di dire subito come la pensa, mettiamo le nostre singolarità a confronto, magari anche in contrasto, perché riusciamo a creare uno spazio chiuso, tutto nostro, dove possiamo mettere in gioco noi stessi e fondere le nostre specifiche qualità. Non c’è uno di noi che decida definitivamente, il che è un bene poiché non crea squilibri tra di noi, ma in parte anche un male, visto quanto a lungo può durare la presa in considerazione di tutte le possibili variazioni proposte. Comunque desideriamo che non accada che uno di noi si presenti in sala prove con quattro accordi su cui costruire un pezzo, ciò che conta è l’idea, aver chiara la sensazione che si vuole esprimere o la storia che si vuole raccontare e lasciare che scaturisca la musica che la dipinga.

Nei sei pezzi del vostro disco si sentono sonorità piuttosto diverse tra loro, riconducibili a vari generi. Da cosa dipende?
Soprattutto dal background diverso di ciascuno di noi, sia per formazione che per interessi, e dall’apertura che disponiamo ad accogliere i gusti degli altri, oltre che, ovviamente dalle nostre personalità che si intersecano; suoniamo “canzoni”, il che significa assegnare una struttura comune ai nostri pezzi e riservare grande attenzione ai testi, ma le contaminazioni tra più generi sono fondamentali, sullo sfondo rock si distinguono le tracce più diverse, dai ritmi latini all’elettronica.

Come vi rapportate al pubblico? Componete musica mirando ad un target?
Non è facile, certo non si fanno compromessi sacrificando la propria creatività alle abitudini dell’ascoltatore, ma lo si tiene in considerazione mentre si compone, si propongono dissonanze ma prestando attenzione al pubblico. Soprattutto dal vivo è necessario accoglierne le reazioni.

Proprio dal vivo dovrete prestare attenzioni particolari, ad esempio al look; e come adattate il repertorio al palco? Siete fedeli alle incisioni o proponete nuove versioni dei pezzi?
Anche a proposito del look il background fa testo ma, da parte sua, Fà (Fabio Baresi, ndr) ha molto insistito perché vi stessimo attenti: preferiamo il nero, è essenziale e non distrae dai corpi e dai gesti. Presentare dei pezzi live ti costringe ad aggrapparti a dei canoni, soprattutto per la ritmica, ma le armonie delle chitarre e le modulazioni della voce possono anche non essere mai due volte uguali; anche dal vivo si prova, nei limiti del possibile, pur rischiando di commettere degli errori.

Nei vostri concerti si sentono anche canzoni celebri di grandi musicisti…
Importante, per noi, è stato anche mettere in repertorio delle cover, perché non si può eccitare la membrana dell’ispirazione a casaccio, comporre un pezzo inedito richiede tempo, così reinterpretiamo brani che sono pietre miliari della nostra formazione, sconvolgendoli in modo da scoprire quali di essi hanno una sostanza sotto la superficie. Abbiamo deciso di proporre Money, dei Pink Floyd, ad esempio, in una versione che, fin dal primo ascolto, susciterà sensazioni diverse dall’originale, più ruvide.

Vi trovate, per assurdo, ad un bivio: una direzione porta ad un contratto con un’etichetta indipendente che vi lascia liberi sul piano artistico ma offre garanzie limitate, l’altra conduce ad una collaborazione con una major, produzione garantita e palchi affermati, diciamo Sanremo, ma anche alcuni confini alla vostra scelta musicale dovuti ad esigenze commerciali. La vostra scelta?
Beh, non nascondiamo che bisognerebbe trovarsi in una situazione del genere per valutare tutte le sfaccettature che presentano le due opzioni, ma è quasi certo che preferiremmo la via che preservi la nostra musica; è anche vero che farsi conoscere in fretta dal pubblico non comporta un danno, anzi, e, se hai talento, questo è destinato ad emergere anche se all’inizio ti viene chiesto di metterlo un po’ da parte. Il compromesso, in generale, è comunque spiacevole e si dovrebbe tendere ad evitarlo.

Tre parole ciascuno: una per definire voi stessi, la seconda per la vostra qualità musicale, l’ultima per descrivere Hemingroove.
Antonio: cupo, la qualità è la fluidità, Hemingroove è dissonanza.
Fabio: trasparente e romantico, in musica mi lascio trasportare e trasmetto questo trasporto, Hemingroove è sangue caldo.
Giuseppe: sono alla rincorsa, ovviamente il mio campo è la ritmica, Hemingroove vuol dire sogno.
Marco: Caino e Abele, la mia qualità è l’armonia, Hemingroove è sanguigno.


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