LA SPOSA TURCA


Amburgo, Germania, oggi. Cahil, quarantenne tedesco di origini turche, ricoverato per tentato suicidio. Schianto deliberato in auto per problemi di depressione. Sibel, ventenne tedesca di origini turche, ricoverata per tentato suicidio. Ferimento delle vene dei polsi perché chiusa nella casa paterna in regime di detenuta dal padre e dal fratello di osservanza musulmana. Questa descrizione dei personaggi, per quanto fredda e scarna, quasi degna di un bollettino medico, rappresenta gli unici, apparenti, punti in comune tra i due protagonisti: entrambi turchi, entrambi di seconda generazione, entrambi residenti nel profondo nord tedesco, entrambi nel baratro.
I due si incontrano nella clinica psichiatrica che li ospita dopo il loro tentato suicidio. Sibel, una graziosa ragazza mora chiede a Cahit appena conosciuto, un rottame d’uomo sfatto e butterato, di sposarla; solo in questo modo, pensa la ragazza, potrà liberarsi dalle mura casalinghe e cominciare a vivere. L’uomo, scontroso ed introverso, dopo non pochi rifiuti, decide di accontentare la ragazza ma con il patto chiaro di rimanere indipendenti. Da qui nasce una storia d’amore dura e dolce, tenera e violenta, certamente per nulla banale. Il film, uscito nelle sale italiane nell’ottobre 2004 e vincitore dell’Orso d’argento al festival di Berlino, è un originale e struggente ritratto di un uomo e una donna nati in una società che ancora, dopo il tempo di un’intera generazione, è riluttante ad abbattere i muri della intolleranza modello neo-ariano. Non ci sono, a dir il vero, episodi chiari di razzismo, infatti “la gente tedesca” è quasi invisibile nel film. È l’intera weltanshaung, l’aria notturna ed urbana, che pare spingere i personaggi verso una dipartita prematura e dolorosa. Il titolo originale Gegen die Wand, “contro il muro”, è esemplificativo di questa condizione. Simbolico, in più, è il fatto che Cahit tenti il suicidio lanciandosi proprio con l’auto contro un muro: la parete resiste all’urto ed è talmente “ingiusta” da non dargli nemmeno la soddisfazione di ucciderlo. Proprio lì però, distrutto ed esangue, contro la morte sfiorata di mattoni, sdraiato sul fondo secco del baratro, incrocia lo sguardo della donna che, in fondo, gli salverà la vita. Il rapporto d’amore tra i due, la vera forza del film, è messo in scena ordinatamente da Fatih Akin, un regista quasi esordiente, anch’esso tedesco di provienenza turca, ed interpretato magistralmente da Birol Uenel (una piccola apparizione in Nemico alle porte) e Sibel Kekilli (esordiente totale, commessa e attrice soltanto in un paio di fim pornografici). La pellicola, vincitrice tra l’altro di cinque premi Lula (gli Oscar tedeschi), solleva molte critiche, specialmente in quell’ambiente tedesco che talvolta cela ancora male l’abbandono del “Deutschland Uber Alles”; spaventoso per altro che la critica più orrendamente xenofoba verso un cinema “zingaro” venga da quel quotidiano famosissimo di nome “Bild” che tanto è apprezzato in Germania. Secondo me un film stupendo, tedesco nell’anima romantica e turco nei toni. Un film che comunque, oltre le mille tematiche a cui apre nel teatro della multirazzialità, è a mio parere da fruire come una splendida storia d’amore che prova a ragionare sul concetto forse più universale. L’amore salva, riesce semplicemente a dare forma ad una vita bidimensionale e a colorare il grigio d’ogni giorno. L’amore uccide, semplicemente perché finisce, semplicemente perché non avvisa, semplicemente perché non si può far nulla se non morire dentro, se non perdere la speranza, se non perdersi. Stupendo, sanguinoso, sanguinante.


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