IL MAGICOMONDO DI ADAM GREEN

di Giovanni Caiola / underdog1982@libero.it

Dannazione! Come ho fatto a non accorgermi subito del talento di questo ragazzo? Come ho potuto sottovalutare così grandemente i suoi primi due dischi solistici? Sto forse diventando irrimediabilmente sordo? In fondo sia Friends Of Mine che Gemstones non erano brutti album avevano soltanto il torto di essere un po’ pallosetti, mai comunque quanto il disco col quale la carriera di Adam Green era iniziata. Ma… accidenti che mal di testa, meglio procedere con ordine eh? Adam Green, newyorkese, debutta discograficamente nel 2001 (giovanissimo, avendo l’età del sottoscritto; date un occhio all’indirizzo mail qui sopra e fatevi due conti) assieme a Kymia Dawson, i due si fan chiamare Moldy Peaches e il disco omonimo è un bizzarro concentrato di ballate folk-punk perlopiù incompiute. Non un disco indispensabile in ogni caso essendo anzi piuttosto noioso, anche se un brano titolato Downloading Porn Whit Davo ne vale da solo l’acquisto! La carriera dei due finisce qui e il nostro Adam inizia così il proprio cammino in solitaria: il primo dispaccio che ha la premura di farci avere è Friends Of Mine (2003) nel quale c’informa della sua passione per il pop dei ‘60, ancora una volta però il tutto risulta troppo soporifero; ed è quel che accade pure nel successivo Gemstones (2005) che certifica un ritorno al folk, evidentemente primo amore difficile da scordare. E qui qualcosa dev’essere accaduto perché nulla mi faceva pensare che Green avrebbe potuto un giorno pubblicare un disco come il recentissimo Jacket Full Of Danger: per dirla proprio tutta quest’ultimo disco non mi sarei mai deciso ad ascoltarlo non fossi stato favorevolmente colpito da una graziosa copertina popolata da animaletti danzanti, e che errore avrei commesso! Che sorpresa quella voce baritonale alla Scott Walker primigenio (a breve avrete notizie su di lui in questa rubrica, restate sintonizzati) immersa in canzoni pop che definire perfette non è sufficiente per renderne la bellezza. Tra una Pay The Toll che pare Nick Cave alle prese con un musical hollywoodiano e una Hairy Women che avrebbe fatto felice sua maestà Elvis, stanno infatti tredici brani svelti e coinvolgenti capaci di far splendere il sole anche nell’anima più irrimediabilmente disperata: Novotel è una filastrocca che rimanda a certe cose di Julian Cope, mentre ascoltando Party Line sarà il sorridente viso occhialuto di Elvis Costello ad affacciarsi alla vostra memoria, Jolly Good potrebbe invece essere benissimo una collaborazione fra Jorma Kaukonen e David Fridmann, Watching Old Movies ridà vita allo spirito di Townes Van Zandt come Nat King Cole fa con quello di Kevin Coyne. Ma non lasciatevi sviare da tutti questi riferimenti, la miscela che ne nasce è personalissima e vi risulterà facilissimo innamorarvene, ne so qualcosa io che non riesco a fare a meno di tutte (tutte, beninteso) le canzoni di questo disco almeno una volta al giorno da un po’di tempo a questa parte. Senza alcun dubbio uno dei dischi più belli del 2006.


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