DOVE ANDREMO A FINIRE?

di Paolo Capelletti

Il governo è fatto. Lasciamolo lavorare ma non cadiamo, secondo lo stile tipicamente italiota, nell’illusione che tutto vada bene e che la deriva del pensiero politico rappresentata dal fenomeno Berlusconi sia stata riassorbita o sia comunque in fase di riflusso. Quel che hanno significato gli ultimi due governi di destra in Italia, Paese strutturalmente conservatore, è estremamente preoccupante, non lo scopre certo chi scrive, sotto diversi punti di vista, comunque così riassumibili: i cittadini non si riconoscono più nella classe politica e la rifiutano. Tale rifiuto si è manifestato, talvolta, con una scarsa affluenza alle urne (fortunatamente non è stato così lo scorso aprile) ma le sue motivazioni vanno cercate più in profondità; dopo che Mani Pulite mosse il fondo per mostrare il marcio che stava ancor più sotto, l’effetto inaspettato fu che la sabbia così sollevata impedisse a tutti di vedere veramente. Si cominciò a parlare di Roma Ladrona e, subito dopo, l’uomo che, con la televisione privata e gli imponenti mezzi stampa di sua proprietà, aveva reso spensierata l’Italia lavoratrice per qualche ora al giorno, capì che era giunto il momento di salvare il proprio popolo dalla perdita di orizzonti (e, accidentalmente, se stesso dal finire dietro le sbarre). Per tutti questi anni il messaggio, neanche troppo velato, è stato che la classe dirigente italiana e, particolarmente, la sinistra comunista, fossero incollate alla poltrona e sempre pronte a mettere le mani nelle tasche dei cittadini, autoreferenziali e disinteressate ai problemi della gente; ma la magia non è stata solo far passare questo schema linguistico/cognitivo come convincente, ma addirittura renderlo vero: la sinistra è stata impreparata e perciò spiazzata, non ha mai contrapposto un linguaggio altrettanto immediato ma proprio, ha saputo agire solo di rimessa, giocando sempre sul terreno preferito dell’avversario e con le regole che lui aveva scritto, trovandosi, inevitabilmente, a rincorrerlo senza mai raggiungerlo. Si è così giunti, senza alcun cambio di registro, alle politiche dello scorso aprile, quando la vittoria della sinistra veniva data per certa, avendo alle spalle il pesante precedente delle regionali del 2005. Ma alle regionali non si votava per Berlusconi. La sinistra ha accettato l’idea che la scorsa chiamata al voto fosse una prova plebiscitaria per la persona dell’allora Presidente del Consiglio e gli elettori hanno risposto come il centro-destra sperava: Berlusconi sì. Ma per fortuna a giurare sul Colle ci va quell’altro: basta per parlare di vittoria? Non credo, occorre una pesante autocritica, il riconoscimento del fallimento di un sistema e di un gruppo di leader che, per dieci anni, non sono stati in grado di smascherare il Cavaliere Nero. Come fare? Ritengo si sia raggiunto e superato un limite di immobilismo stagnante a cui non si possa porre rimedio se non con una ventata (un ciclone?) d’aria fresca, il problema non sta più solo in Che cosa, ma in Chi. Abbiamo un leader di governo che, per un ragazzo, è un nonno, non un padre e che, per giunta, aveva già avuto la sua occasione per governare; abbiamo un Consiglio dei Ministri la cui età media non consola, in tal senso, soprattutto perché, anche qui, navighiamo perlopiù nelle solite vecchie acque. Proporre un candidato premier quarantenne provoca le reazioni di una bestemmia in Vaticano; ma gli altri Paesi Europei non solo li candidano, ma li eleggono pure ed essi fanno generalmente un buon lavoro, comunque non peggiore dei loro colleghi al di qua delle Alpi, del resto vedono il mondo come attuale, lo conoscono perché lo vivono in prima persona e con i propri figli. Gente nuova, dunque. A proposito di gente: ci siamo fatti incastrare in uno schema linguistico che presenta la televisione come l’organismo che incontra la gente, va nelle case e porta pensieri e stili di vita mentre regala uno svago immediato. Mi permetto di rilevare un aspetto: è certamente sbagliato sostenere che la tv sia il male assoluto, sbagliato correre il rischio di demonizzare quello che, in sé, altro non è che uno strumento; tuttavia non c’è dubbio che lo strumento, di questi tempi, sia finito nelle mani sbagliate. Non mi riferisco soltanto a ciò che ormai ama auto-definirsi “tivù spazzatura”, ma anche, per esempio, al plastico salottino di Vespa, nel quale si inscena, con gran vanto, il trionfo dello scollamento tra politici e cittadini. Certamente è vero che molte persone guardano la televisione, che può essere elemento (in)formativo per esse ma mi rifiuto di accettare il sistema televisivo proposto solo perché è immediato e di largo consumo e pazienza se non stimola gli intelletti. Ritorniamo al problema iniziale: occorre proporre un’alternativa, respingere le sirene che invitano a propinare menzogne calde e confortanti per rassicurare l’ascoltatore, chiedersi se non sia venuto il momento di ascoltare anziché urlare slogan dualistici uguali, nell’essenza, a quelli degli avversari, per quanto a poli invertiti. La televisione quindi non è il male e chi la disprezza in senso definitivo sbaglia nel non intuire la potenza che il mondo odierno le ha conferito, potenza che non è qualcosa a cui bisogna solo rassegnarsi o con cui bisogna convivere ma, al contrario, che va cavalcata, ma con le briglie giuste: mi si perdoni se non condivido che siano i talk-show nel format attuale a poter dare vita ad una valida campagna elettorale. Anche per la tivù, in conclusione, si sente il bisogno di un pesante e radicale rinnovamento che spezzi il trend di adeguamento al sistema mediatico berlusconiano. Dove andremo a finire, dunque? In un’ottimistica visione delle cose ci si deve aspettare che un governo di sinistra realizzi ciò che l’odierna ideologia, da esso rappresentata, professa: la costituzione di un vero Stato laico e di un impianto mediatico aperto e capillare e la valorizzazione (non “tolleranza”, termine abusato e aberrante) delle differenze intese, anche e soprattutto, come individuali, da cui deriva una struttura puramente meritocratica. In realtà questi obiettivi non dovrebbero essere vissuti come sogni ma essere prefigurati come elementi semplici e scontati laddove si punti all’uguaglianza dei diritti; al contrario il linguaggio da cui veniamo quotidianamente indottrinati ci abitua ad aspettarci che i nostri figli vengano rapiti da un momento all’altro da un immigrato nascosto dietro la prossima bancarella, che sul nostro autobus sia salito un terrorista alla fermata precedente, che i nostri sudati risparmi siano alla mercé di sanguisughe senza scrupoli, travestite da parlamentari, che vogliono farci credere che le tasse siano utili e invece ci derubano. In questo modo si vive continuamente in apprensione e nel timore che tutto finisca in tragedia e non ci siano né il tempo né l’opportunità di progettare un Paese migliore con interventi a lungo termine. Occorre comunicare in un modo nuovo e domani è già tardi per cominciare.


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