ARTHUR LEE
DALLA CALIFORNIA CON AMORE

di Giovanni Caiola / underdog1982@libero.it

Il 3 agosto scorso è morto Arthur Lee (morte in qualche modo oscurata da quella più o meno coeva del grande Syd Barrett) e non in molti ne hanno dato notizia in maniera adeguata. Perché forse pochi lo avran sentito nominare prima d’ora ma Lee è stato il leader dei Love, uno dei più grandi gruppi psichedelici di sempre. Se ancora non li conoscete procuratevi al più presto Forever Changes e preparatevi ad un’esperienza indimenticabile. Dopo la pubblicazione di due buoni album dediti ad una forma sperimentale di garage-rock come Love e Da Capo (entrambi del 1966), i cinque ragazzi californiani decidono di darsi al folk, ma è una strana forma di folk quella che meditano d’imbastire in Forever Changes: melodie pastorali che s’intrecciano a raga orientali che a loro volta sfumano in giostre di chitarre flamencate trasportate da tappeti d’archi in libera uscita, il tutto senza abbandonare completamente l’attitudine garage. Detto così sembrerebbe un marasma senza capo né coda, ma vi assicuro che invece è pura magia. Traumatica la condizione nella quale i Nostri portano a termine le registrazioni, l’uso di droghe sempre più pesanti non fa infatti altro che aumentare dissapori già esistenti all’interno del gruppo. Dissapori così forti che, uscito il disco, Lee allontanerà tutti i compagni – doveroso ricordare soprattutto Bryan MacLean – e porterà avanti la storia dei Love con altri musicisti a lui maggiormente graditi (per chi volesse approfondire il discorso Love: Four Sail del 1968 è ancora un buon disco, prescindibili sono invece a mio avviso Out Here e False Start, famoso quest’ultimo per avervi collaborato Jimi Hendrix). Ma tutti questi problemi non lasciano traccia nella musica che si ascolta in Forever Changes (anno sul serio di grazia 1967), un disco che magari al primo ascolto può sembrare ostico, ma se si ha pazienza si sentiranno sbocciare melodie di grazia ineffabile. Anch’io quando anni fa l’ho sentito per la prima volta non ne sono rimasto particolarmente colpito, ma l’avevo giustappunto sentito; solo quando in seguito l’ho ascoltato davvero ho carpito i barlumi d’infinita bellezza melodica presenti in questi undici brani. E da quel giorno la mia percezione della musica è completamente cambiata. Ma la smetto subito con questa sciocca parentesi autobiografica per segnalarvi almeno qualche brano che possa farvi capire il tono dell’album: A House Is Not A Motel cita Bacharach nel titolo ma la musica è un raga hardizzato, Andmoreagain è un intricato nodo d’archi che si scioglie in un ritornello indimenticabile, la ballata acustica Old Man giunge da qualche posto sicuramente più bello e più giusto di questa terra, Maybe The People… è un’inarrestabile giostra di emozioni. E via elencando (una curiosità: i titoli dei brani spesso non hanno alcuna attinenza col testo dei brani medesimi, si riferiscono invece alle sensazioni che la musica suggeriva ai suoi stessi autori), difatti questo è un disco che non presenta passi falsi. Recentemente ho notato che nei negozi viene venduto ad un prezzo irrisorio. Approfittatene.


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