Gian Butturini 1935-2006
Fotografia come dialogo

di Eliseo Barbāra

Non possono non esserci che amarezza, un pizzico di imbarazzo e tanto rammarico nello scrivere queste righe. Gian Butturini, fotografo e cineasta bresciano, è morto all’alba del 29 settembre all’Ospedale Civile dov’era ricoverato da quattro giorni per esami di controllo. Amarezza, certo, e imbarazzo nel ricordare in un classico commemorativo stile “da coccodrillo” solo adesso, un uomo che meritava certamente più attenzione nell’ambito della fotografia e non solo. Ma soprattutto provo grande rammarico nel non aver mai conosciuto di persona Gian Butturini. Al suo posto ho conosciuto le sue fotografie che permettono, come nei migliori reportages, viaggi in dimensioni spaziotemporali nuove, lontane, affascinanti, crude e, ora, per sempre raggiungibili grazie a uno dei tanti (o pochi) uomini che dedicano la propria vita a far conoscere agli altri fatti taciuti o semplicemente sconosciuti. Tra questi Gian Butturini. Il fotografo, classe 1935, è nato a Brescia ma è stata Londra che ha visto i natali della sua avventura fotografica. È stata la swinging London del 1969, con i suoi hippies e la scena underground in piena fase esplosiva, che ha accolto un giovane grafico intraprendente e di successo ma insoddisfatto dal mondo pubblicitario. London by Gian Butturini è stato il primo di oltre quaranta libri di reportage fotografici che lo hanno portato in giro per il mondo alla ricerca di un’utopia politica e sociale: “incontrare l’umanità”. E il modo migliore per farlo è stata la documentazione visiva, sia per mezzo della fotografia che del video. Con lui, anche noi possiamo incontrare gran parte dell’umanità che Butturini ci ha presentato. Spinto da interesse, curiosità, tenerezza, coerenza, passione e sensibilità civica non ha mai cercato la valenza puramente estetica delle sue immagini rigorosamente in bianco e nero, ma con uno stile ruvido, sobrio ed essenziale, sulla linea della grande Diane Arbus (pur con le rispettive e profonde differenze di fondo), Butturini mette in comunicazione e in contatto lo spettatore e i soggetti fotografati. E in mezzo a loro troviamo il fotografo, assente e presente nello stesso tempo, mai imparziale, distaccato e individualista. La sua è una documentazione sotto forma di dialogo, un dialogo che rimane, e deve rimanere, aperto. Testimonianza e contributo partecipativo sono state le parole chiave della sua utopia. Dopo Londra, Butturini ha alternato il suo lavoro a Brescia con viaggi a volte vissuti come veri e propri pellegrinaggi e iniziazioni ad una sempre più accentuata missione sociale e politica. Dall’IRA irlandese di Belfast e di Bernadette Devlin alla Cuba post-rivoluzionaria di Fidel Castro, dal Cile di Salvador Allende e poi di Augusto Pinochet e dei primi desaparecidos alla malinconica e degradata Berlino Est della Repubblica Democratica Tedesca. E poi in Italia: dalle indagini sulle morti bianche degli operai allo stupendo reportage sulla chiusura del manicomio di Trieste al seguito di Franco Basaglia, umanista e padre della psichiatria anti-istituzionale italiana. A Trieste Gian Butturini ha scattato fotografie (raccolte nel libro Tu interni… io libero del 1977) che nulla hanno da invidiare a quelle ben più note di Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati in Morire di classe. Sono fotografie di pieno affetto e rispetto per i malati di mente all’alba della loro difficile uscita dalla schiavitù obbligata. Butturini, vent’anni dopo questa esperienza, ha raccontato che allora realizzava “solo con immensa fatica, alcune foto che davano una impietosa descrizione di questa dolorosissima dimensione dell’abbandono e della distruzione della personalità dei malati”. I reportages di Butturini sono poi andati avanti anche in altre parti del mondo e nel corso degli anni seguenti: dal Sahara Occidentale del Fronte Polisario del popolo Saharawi al sanguinoso conflitto etnico jugoslavo, fino al Chiapas messicano sulla strada degli antichi indios accanto agli zapatisti del subcomandante Marcos. Sono fotografie, quelle di Butturini, in cui al centro ci sono sempre donne e uomini, mai estrapolati dalle loro storie quotidiane, ai quali il fotografo sembra ripetere “sono qua con voi e per voi, sono qua per fare un servizio a voi, per lavorare con voi e per darvi la mia solidarietà”. Stessa filosofia che ha condotto anche nei suoi film, purtroppo non facilmente reperibili, come Crimini di Pace, Omac… Un minuto in più del padrone, Il Mondo degli Ultimi e Bologna 10,25 Strage. Gian Butturini è conosciuto a livello internazionale e adesso la sua città natale, Brescia, deve sentirsi in obbligo di omaggiare il talento, il carisma e l’umanità del fotografo. La città, e non solo le gallerie private e gli amici di sempre di Butturini, deve recuperare l’ingiusta dimenticanza in cui era caduto ultimamente il suo lavoro. Le fotografie di Gian Butturini devono continuare a dialogare con noi. E noi con loro.


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