FIGHT CLUB

di Luca Morselli e Dą(vide) Bardini

Fight Club è il secondo romanzo di Chuck Palahniuk, il primo è stato Invisible monsters, respinto perché giudicato troppo crudo. Il libro si apre su un mondo surreale, dai tratti onirici e fantastici, in cui l’immaginazione dell’autore-narratore-protagonista, mossa da una cieca volontà di distruzione, guida le menti alienate della nuova generazione alla messa in discussione di ogni valore, al loro rifiuto fino alla distruzione materiale e simbolica del vecchio mondo, manifesto di una nuova Apocalisse. Individuiamo nel tessuto narrativo due personaggi principali: il narratore, impiegato modello di una compagnia motoristica, ossessionato dal mobilio dell’Ikea ed affetto da insonnia e Tyler Durden, montatore cinematografico, cameriere e fabbricante di sapone, terrorista ecologico e guerrigliero mediatico. I due si incontrano su un aereo, decidono di andare a vivere insieme quando il narratore scopre che un’esplosione ha distrutto casa sua. Fuori da un pub Tyler ordina all’altro: ‘’Voglio che tu mi colpisca con tutta la forza che hai‘’. Nasce il Fight Club, un circolo ristretto e segreto, di avvocati, contabili, impiegati, benziani, camerieri. Un guazzabuglio in cui tutti devono rispettare alcune semplici regole. Questi circoli diventano luoghi di incontro e di combattimento a mani nude, luoghi di liberazione dai fardelli quotidiani, di riscatto dall’alienazione che vive ogni partecipante. “Combatti per sapere chi sei!” è il grido profetico di distruzione e liberazione, abbandono drammatico di ogni modello di potere costituito, del fondatore e leader del Fight Club, Tyler Durden, che ottiene attraverso questi circoli un potere enorme che finirà per renderlo schiavo. Un potere che porterà Tyler Durden ad esportare il modello Fight Club per tutta l’America e, tramite esso, a costruire un esercito privato che abbia il compito di realizzare il Progetto Mayhem, attacchi terroristici agli Istituti di credito, primo passo verso la distruzione di tutta la civiltà. Il narratore cercherà di fermare Tyler e il suo progetto, fino a quando scoprirà che egli è Tyler e Tyler è lui. Corre parallelo a questo lo strano e complicato amore fra il narratore e Marla Singer, vera femme fatale del romanzo, conosciuta ai gruppi di sostegno. Fra momenti di passione e drastici abbandoni, la loro relazione prosegue per tutta la storia, offuscata e resa quasi incomprensibile dallo stile virtuale ed oscuro di tutto il romanzo. Nel delirio profetico e apocalittico del protagonista l’autore non trova spazio per la costruzione di grandi frasi e grandi pensieri; la scrittura del libro è composta da una sintassi dura e spezzettata, fatta da frasi secche, sincopate, ripetute e ripetitive fino all’ossessione, con quasi totale assenza di subordinate. Il film, di David Fincher, è stilisticamente molto vicino al libro, specialmente per il montaggio a singhiozzo e spezzettato, che porta i corpi da una zona all’altra tralasciando il movimento. “Siamo tutti la stessa canticchiante feccia del mondo”. Questo dice Tyler Durden, o meglio, i due Tyler Durden, in una sequenza della pellicola. Un film che colpisce con la potenza di un pugno, che atterra la “volontà razionalizzante” umana, che inibisce, e allo stesso tempo stimola i sensi, fino quasi a far implodere la visione dentro se stessa. Fight Club è uno di quei film che ci piace definire “un esperienza”, qualcosa che ti fa essere, dalla scritta “the end”, qualcun’altro. E’ un film visionario, allucinato ed allucinante. Un perfetto paesaggio mentale stile Roman Polanski dove le pareti della location sembrano essere pulsanti di vita cerebrale. L’architettura filmica è complessa, con stacchi di montaggio molto rapidi, sezioni narrative brevi ma intense; il tutto amalgamato con una colonna sonora, ad opera dei Dust Brothers, splendidamente centrale e allusiva, ed una fotografia sanguinante dai toni sudati, che finiscono in un giallo acceso e terrificante. Gli attori, Edward Norton, Brad Pitt ed Helena Bonham Carter, inventano un’interpretazione magistrale, dando a tutta la messinscena un taglio attoriale prepotente e centrale. La storia del Fight Club è la storia dell’autocoscienza nevrotica del narratore, una storia sulla versione moderna del sogno americano. Tyler Durden aspira all’autodistruzione dell’io di un impiegato, alienato e costretto ad una vita in cui si tacciono i guai e le magagne di un’assassina casa costruttrice di auto, in cui le aspirazioni sono una valigia piena di abiti firmati ed un appartamento da copertina IKEA. Un mondo dove a nessuno importa se vivi o muori. Il Fight Club è un (anti)sistema radicale per uscire dalla vita comune, dal vivere quotidiano che ci opprime e dai beni materiali: “gli oggetti che possiedi, alla fine ti posseggono”. Combattere senza alcun motivo o premio, mettere in gioco la propria carne, essere primitivi; “dopo il combattimento nulla era cambiato ma nulla contava davvero”. La soluzione al vivere quotidiano ha toni apocalittici ed epocali: abbandonare tutto, toccare il fondo, respingere i principi base della civiltà per poter rinascere da zero: “solo dopo aver perso tutto siamo liberi di fare qualunque cosa”. Il film ha forte carica nichilista, la volontà stessa di perdere tutto in favore di una “rinascita vitale”; abbracciare, in fondo, la carica distruttiva del nulla nietzscheano per abbandonare la mediocrità quotidiana. L’unico modo per svegliarsi è far fuori il finto se-stesso, per far posto ad un io nuovo, che riconquisti la realtà del proprio desiderio, soffocata nel dormiveglia generale della società americana e sublimata nei prodotti di consumo di un industria culturale che sta uccidendo i suoi clienti. Tyler Durden è, ed è questa una delle grandezze dell’opera, una figura profetico/messianica e, allo stesso tempo, un uomo turbato, debole ed oppresso dal peso sociale; una sorta di personaggio kafkiano perso nel grigiore quotidiano di giorno, profeta rivoluzionario di notte… Se è la vostra prima sera al Fight Club, dovete combattere!


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