NINA SIMONE
L’URLO, IL FURORE, LA BELLEZZA

di Giovanni Caiola / underdog1982@libero.it

Me lo chiedo di tanto in tanto: ma quanto dobbiamo a Jeff Buckley? Molto, mi rispondo. Un disco superbo qual è Grace, l’occasione di tornare una volta di più ad ascoltare la voce e gli album del padre Tim e in qualche modo pure la riscoperta di Nina Simone. È infatti proprio di quest’ultima la versione originale di quella Lilac Wine di cui Jeff offriva, proprio in Grace, una rilettura da cardiopalma. Ma chi ha ascoltato l’originale sa che quella prima versione è, e per sempre rimarrà, imperfettibile. Lo stesso Jeff, c’è da scommetterci, lo sapeva e infatti non ha potuto far altro che replicarla minuziosamente. Ma Nina Simone (vero nome Eunice Kathleen Waymon; Nina è il nomignolo affettuosamente datole da un amico e Simone deriva dalla sua ammirazione per l’attrice Simone Signoret) non è stata interprete di quella sola canzone, la sua lunga carriera – si è spenta, settantenne, nel 2003 – è costellata di molti dischi bellissimi, almeno nove dei quali meriterebbero di essere posseduti a qualunque costo. Nel caso però non voleste esagerare con l’esborso economico, vi consiglierei di partire da Nina Simone & Piano! del 1970 (ma state certi che una volta ascoltatolo vorrete subito sentire anche gli altri otto!). È un disco fatto di poco, pochissimo: un piano ed una voce; ma… quanto sono strazianti quel piano e quella voce! La Simone è difatti in possesso di una tecnica pianistica sublime appresa, in gioventù, alla Juilliard School di New York e di una voce peculiare che per emotività rimanda a quelle di Billie Holiday, Sarah Vaughan e Dinah Washington. Come queste, ha poi dovuto sopportare nella vita dolorose vessazioni causatele dall’altrui imbecillità razzista. E nel disco tutto quel dolore si sente, si fa rabbia – non un caso le sue amicizie con Malcolm X e James Baldwin – e infine si sublima in insostenibile bellezza. Giusto a metà del programma ci si imbatte in un brano titolato Compensation e da quello, ipotizzando per assurdo che già i quattro precedenti non l’avessero fatto, si rimane incantati e non ci si riprende più: in novantasei secondi che valgono un’intera vita Nina sanguina alcuni toccanti versi del poeta Paul Laurence Dunbar. Difficilmente dimenticabili sono anche l’iniziale Seems I’m Never Tired Lovin’You, una Everyone’s Gone To The Moon che commuove sino alle lacrime, il lamento gospel di Nobody’s Fault But Mine e l’accorata Another Spring. Ho citato la metà dei brani dell’album ma non crediate che gli altri valgano meno, la scelta dipende soltanto dall’umore della giornata. Di più: sarei pronto a spendere un mio ipotetico obolo in favore della causa “c’è una vita dopo la morte” pur d’illudermi di poter ascoltare questo disco per l’eternità (ad esser sincero lo farei per almeno altri due dischi, che rivelerò però solo a quei lettori curiosi che avran la bontà d’inviarmi e-mail zeppe di complimenti o, ma solo se lettrici, proposte oscene). Una voce magica che dà dipendenza ma non assuefazione, un disco che è una perla immortale. Grazie d’averceli fatti conoscere, Jeff.


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