STORIE, MOSTRA PERSONALE DI LUIGI BELLINI

di Luca Cremonesi

Leggo d’arte ormai da anni ed è straordinario notare come gli scritti su mostre e artisti siano spesso squisitamente farciti di parole in libertà cesellate con una ricerca forsennata di sensi e significati contorti. Tra i migliori libri sull’arte che si possano leggere c’è l’evergreen Arte di Dino Formaggio, ma anche lo sconosciuto testo del celeberrimo Roberto Longhi Breve ma veridica storia della pittura italiana. Fra i più recenti segnalo l’ultimo Bonito Oliva, Lezioni di Boxe, e tutte le opere di Georges Didi-Huberman di cui, finalmente, sono state pubblicate alcune traduzioni in lingua italiana. Questi autori hanno in comune lo scrivere d’arte senza voler esser artisti del non senso. Traduco: trattano d’arte senza voler dimostrare nulla, scrivono per raccontare quello che tutti possono vedere con i loro occhi. Non si tratta di elogiare una scarsa competenza, ma di scrivere ciò che si vede realmente nell’opera d’arte. Chi scrive d’arte, insomma, dovrebbe trattare di ciò che vede – di ciò che si dà a vedere nell’opera – e non cercare di stupire il lettore con parole e frasi prive di qualsiasi attinenza con l’oggetto di cui si discute.

La mostra Storie (dal 6 al 28 maggio presso Palazzo Menghini di Castiglione delle Stiviere) dell’artista mantovano Luigi Bellini, è un esempio interessante per dimostrare quanto affermo. Alcuni commenti – molto più autorevoli (per questioni di età) del mio – che ho letto relativi all’opera di Bellini non rendono realmente giustizia alla sua arte, ma solo al nome di chi è stato chiamato a scriverne. A mio avviso si è cercato di dare di quest’opera una lettura complicata, piena cioè di pieghe e anfratti nascosti, che si materializzano più nella parola detta che nella reale produzione dell’artista. La mostra Storie si concedeva allo sguardo di qualsiasi spettatore e ha chiaramente fatto vedere come l’opera di Bellini non sia affatto di difficile fruizione. Ho visitato la mostra tre volte, due accompagnato dall’artista, una in solitario (come mio solito) e mi sento di affermare che Bellini non nasconde la sua arte con inutili stratagemmi: il suo messaggio è sempre chiaro e cristallino. Ciò comporta che chi ne scrive abbia la responsabilità di non render oscuro ciò che per sua natura non lo è. L’opera di Bellini insomma, richiede un po’ di attenzione e di voglia di vedere ciò che stiamo guardando, e a ben vedere è tutta l’arte che ha questa prerogativa. Se lo scritto rende il tutto più complesso, il fallimento non è della mostra o dell’opera, ma di chi usa la parola. In questo caso specifico Bellini ci aiuta: egli ha eliminato i titoli e le didascalie dalle opere esposte nella mostra. Perché, ci chiediamo? È evidente, perché il quadro non ha bisogno di esser spiegato. Qualsiasi tela, prima di tutto, va semplicemente guardata e in un secondo momento, con un leggero sforzo, ci chiede di esser vista come accade con un uomo o con una donna vestiti all’ultima moda!

L’arte è sempre stata un problema di immagine: riuscire, cioè, a fare giusto un’immagine e non l’immagine giusta, l’immagine cioè che risponde a regole di bellezza e precisione. È per questo motivo che un quadro cubista è molto più potente di un paesaggio con il molo e le barchette dipinte nel sole del lago di Garda. Bellini è un maestro (così è definito nella monumentale opera Artisti mantovani del XX° secolo) perché riesce a fare l’immagine – giusto un’immagine – come tutti i maestri, grandi o piccini che siano. Come crea l’immagine? Questo è un suo segreto, io e lui ne abbiamo parlato, ma è un non-detto che non si potrà mai raccontare a nessuno per un semplice motivo. Qualsiasi artista crea con la mano e con l’occhio, ed è facile constatare che la mano non vede (così il cuore non duole) e l’occhio non può toccare (dunque mai sarà villano), eppure entrambi sono forzati a queste operazioni. L’equilibrio è un mistero che nessun artista potrà svelare, perché questa è la misteriosa fiamma dalla quale nasce lo stile, unico e irripetibile, di ogni pittore. Bellini costruisce l’immagine per sovrapposizioni di strati di colore, di pagine di giornali, di vari materiali adesivi, ma anche d’immagini, a sottolineare come la materia prima dei giorni nostri sia proprio l’immagine: i cartelloni pubblicitari, le pagine delle riviste, i volantini ecc… L’immagine è anche qualcosa di solido che abbiamo fra le mani e di cui tocchiamo l’essenza, e cioè i colori e i materiali che la compongono: nastro adesivo, colla, carta, fili, legno ecc… Nella creazione dell’immagine nulla si distrugge e si disperde, ma tutto si trasforma, perché tutto si può utilizzare. Dell’immagine, in sostanza, non si butta via nulla, come accade con il porcello. Creare (l’immagine) è giocare! I bambini, i grandi artefici del gioco, sono i grandi creatori e forse Dio – se mai esistesse – non è un vecchio con la barba, ma un bambino che sorride e gioca. Non è un caso che una parte della mostra sia dedicata ai giochi che Bellini ha creato per i suoi due pargoli. Il gioco dell’immagine e l’immagine che gioca con lo spettatore sono fra le possibili chiavi di lettura della mostra Storie. Il gioco casuale della sovrapposizione pubblicitaria ha prodotto un’enorme tela dove Bellini è intervenuto sottraendo elementi. Ne sono emerse nuove immagini, che già però erano presenti nelle trame della struttura originaria, che hanno prodotto e creato nuovi sensi sconosciuti. In altre tele Bellini ri-legge l’11/09 a New York con un gesto che merita attenzione. Se l’11/09 è un evento post-moderno lo è perché è un mix di immagine, di parola, di suoni, di corpi, di tv e di messaggi cifrati. Bellini mixa il tutto in due quadri speculari, ma non identici, riportandoci tutti questi elementi in un sol gesto: quello dell’artista attento alle tensioni e alle forze che animano ciò che vediamo quotidianamente. Storie si chiude con un ciclo di piccole immagini che l’artista presenta come una delle sintesi migliori del suo percorso. In questi lavori l’equilibrio sfiora la perfezione, che si dice non essere di questo mondo, ma io non ci ho mai creduto! Qui si realizza il grido dell’ultimo Beckett: ecco, ho fatto l’immagine! Juste une image ci ricorda Godard nei suoi film, e questo è il grande regalo della mostra di Luigi Bellini: giusto un’immagine. Ecco perché mi piace chiudere quest’articolo citando proprio quel piccolo gruppo di immagini…


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