LEZIONI DI BUSI

di Camilla Colli e Luca Cremonesi

La prima volta che vidi Aldo Busi fu nel 1984, nei corridoi dell’Adelphi, ai tempi della prima edizione di Seminario sulla gioventù, il mio compito era far sì che nei libri non ci fossero errori di stampa, allora si consegnavano ancora dattiloscritti e non dischetti, erano lontani i tempi del lettore ottico e si componeva in piombo. Io lessi le ultime bozze e non posso dimenticare di aver lasciato «amantide religiosa» anziché «mantide religiosa», per assoluta ignoranza, ma non posso neanche dimenticare l’attrattiva e la seduzione che ebbe su di me il suo scrivere: «Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, nemmeno una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, stupore di essercela presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quanto poi si è rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato».
Ero giovane e assetata di vita e di parole, e allora queste poche righe mi apparirono troppo crudeli, troppo amare, ma non mi impedirono di sentire una lingua vera, Busi è maestro della parola, dell’uso della lingua italiana nella sua ricchezza e armonia. Si può essere autori ma scrittore si nasce non lo si diventa. Lo scrittore non scrive per essere letto, lo scrittore scrive perché crea letteratura, l’autore invece se non è letto evapora, scompare. Busi, da quando uscì Seminario, ha scritto più o meno un libro all’anno, è tradotto in undici lingue, o forse più, non fa più il cameriere ma avrebbe potuto continuare a farlo e i libri scritti sarebbero stati gli stessi, ha tradotto – o forse è più giusto dire scritto in italiano – Alice nel paese delle meraviglie, I dolori del giovane Werther, Sette poveracci di Sidney di Christina Stead e Mio padre e io di J.R. Ackerley, i Fratelli Grimm, una personale versione del Decamerone e altri ancora. Discusso anche da chi non ne ha mai letto una riga, è sempre in grado di emozionare, il successo non lo ammalia, la sua intelligenza affinata e affilata lo allontana dai distributori di premi e dai benpensanti; spregiudicato e dissacratore di immagini rimane una persona sincera, generosa, come quando, rivedendolo dopo vent’anni, mi accolse a casa sua, una casa macchiata da vasi di gerani e cespugli di rose, tappezzata di quadri che poi ho riconosciuto nelle sue copertine. I suoi ricci erano meno leggeri di un tempo ma la sua voce era sempre forte, le sue parole non conoscono la paura, mi servì dei buonissimi tortelli che aveva fatto all’alba con le erbette cresciute nel suo orto, ricercati salumi d’asino accompagnati da carciofini sott’olio e da vino rosso lasciato decantare in una grande brocca di cristallo, mi regalò il piacere di ascoltare un uomo che ha avuto l’audacia di non delegare a nessuno la propria mente. Come non dargli ragione quando risponde agli intervistatori: «Essere stati italiani e non aver letto Aldo Busi è essere stati italiani proprio per niente, essere nati e morti come delle bestie».
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Finalmente Aldo Busi torna in televisione!! Sì, finalmente. Lo ricordo, qualche anno fa, quando eclissò l’allora super osannato Gianni Vattimo (filosofo un tempo degno di tal nome) discutendo, se non erro, sul tema dell’omosessualità. Lo ricordo anche in una puntata del Dopo Festival, con padrone di casa uno spaesato Nino d’Angelo. Per la cronaca quell’edizione de Il Festival di San Remo fu vinta da Annalisa Minetti (di cui nessuno ricorda la canzone). La Minetti, non vedente, fu trombata di netto, in estate, al concorso di Miss Italia e, per legge di contrappasso, le regalarono la partecipazione e la vittoria al Festival. Solo Aldo Busi ebbe il coraggio di esprimere ciò che era giusto dire in quell’occasione: “Da oggi anche un sordo potrà vincere San Remo”. Il pubblico s’indignò, la Minetti scomparve, la canzone nessuno la ricorda più ed è così che va il mondo…
Aldo Busi, scrittore originario di Montichiari, ha tenuto quest’anno alcune lezioni ai ragazzi della trasmissione Amici. Non ne ho persa neppure una! Dritte per l’aspirante artista (televisivo), Mondadori 2005, raccoglie, abbastanza fedelmente, il testo di queste lezioni. Tuttavia, perché parlare della presenza Busi alla trasmissione Amici? Perché Busi è un magma televisivo, incandescente ed inarrestabile. Non avevo, un tempo, gli strumenti per comprendere la sua scrittura e neppure ero in grado di apprezzare i suoi scritti. Gli anni e numerose letture mi hanno aiutato…
Busi ha solo sbagliato i tempi, ed ora son maturi perché possa finalmente diventare una voce e un volto televisivo. Non giudico i contenuti che argomenta (ai posteri l’ardua sentenza). Mi interessa la sua presenza in video. Busi, infatti, iniziò a frequentare la televisione in un periodo sciagurato. Regnava incontrastato lo sgarbismo (che non ha nulla a che vedere con l’esser sgarbati, ma ci richiama alla mente, purtroppo, Vittorio Sgarbi). Un fenomeno mediatico che ci ha tormentati per almeno sette anni. Carmelo Bene si scontrò (al Costanzo show prima, e a Macao dopo) con questo fenomeno, ma il suo esser Lorenzaccio anche giù dal palco gli permise di schiaffeggiare gli epigoni dello sgarbato parlamentare. Busi, invece, eccede lo sgarbismo perché non v’è in lui il gusto della semplice provocazione, e neppure quello delle grida forsennate e della baruffa. Busi parla non dice parole come nel caso di Sgarbi, e il suo modo di parlare, in tv, è post-televisivo. Busi infatti è un artista che frequenta la televisione e, per questo motivo, inventa e codifica un nuovo modo d’essere nella televisione. Non è Busi che si (s)vende, ma la televisione che deve imparare qualcosa dalla sua lezione. I tempi son maturi, finalmente. V’è solo un problema: un genio, parafrasando Oreste del Buono, non ce lo meritiamo perché ci ricorda la mediocrità in cui ormai siamo tutti quotidianamente immersi.


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