THE AVIATOR

di Ilaria Feole

Se un autore come Martin Scorsese decide di portare sullo schermo la vita di un personaggio che appartiene al suo stesso mondo, quello del cinema, inevitabilmente il film non sarà solo una biografia ma anche una riflessione sul mestiere di regista. Howard Hughes produsse poco meno di trenta film tra gli anni ’20 e gli anni ’50, e ne diresse due, Angeli dell’inferno e Il mio corpo ti scalderà (questo non significa che Hughes avesse una rilevanza prettamente economica poiché nella Hollywood di quell’epoca era il produttore la figura chiave del film; il regista era il più delle volte un mero esecutore, ed è questo il caso dei film prodotti da Hughes, cui può quindi essere attribuita la responsabilità intellettuale di molte delle opere che pure non furono “firmate” da lui); miliardario, eccentrico, celebre per le sue storie d’amore con svariate dive del grande schermo e per le pionieristiche innovazioni da lui applicate all’aviazione, morì nel 1976 dopo che da parecchi anni si era auto-recluso in una stanza d’albergo, preda delle sue ossessioni paranoiche. Fu la sua figura ad ispirare il titanico Kane, protagonista di Quarto potere di Orson Welles, che Scorsese cita esplicitamente sia nell’apertura del film (che mostra Hughes bambino alle prese con l’ossessione della madre per i germi e per il contagio, che lo accompagnerà per tutta la vita), sia nell’inserimento di tabloid e cinegiornali che documentano le vicissitudini del protagonista.
Scorsese non scade nell’agiografia o nella patinata illustrazione della scintillante Hollywood dell’epoca (che pure è ricostruita con filologica perizia e i cinefili potranno sbizzarrirsi a scovare nel film le molteplici citazioni dai capolavori del cinema americano classico) e scava nella psicologia di un uomo che rimase un eterno adolescente e non cessò mai di amare appassionatamente gli aerei, la velocità e i seni delle donne, retaggi tipicamente infantili. La stessa febbrile, viscerale passione Hughes la riversò nel cinema, dando forma ai suoi sogni e alle sue visioni, anche quando queste erano apparentemente troppo ampie, troppo azzardate, troppo moderne per i suoi tempi; non inseguiva la perfezione, ma la compiutezza della sua visione, fosse questa una roboante sequenza di battaglia aerea o uno strabordante primo piano dei seni di Jane Russell. La caratteristica fondamentale di un (buon) regista è quella di saper vedere le scene prima di realizzarle, vederle nella propria testa e portarle fuori compiutamente, amarle fino a vederle realizzate e vive; Scorsese (avvalendosi dell’eccellente interpretazione di Leonardo Di Caprio) dà vita a questa capacità nel personaggio di Hughes, mostrandocelo sempre circondato, avvolto dalle sue immagini (che in una sequenza scorrono sul suo corpo nudo letteralmente come una seconda pelle), riproiettate senza soluzione di continuità nella stanza dove si seppellisce vivo. Howard Hughes incarna quindi la figura del regista passionalmente legato alle proprie immagini al punto da non saper evitare, talvolta, l’eccesso pur di fermare sullo schermo la grandezza delle proprie visioni; non stupisce che a consegnarci questo ritratto sia Scorsese, autore di film anche non del tutto riusciti proprio per l’eccesso di passione, di vertigine dell’immagine, come Gangs of New York. Candidato nel momento in cui scriviamo a 11 Academy Awards, The Aviator ne merita certamente almeno due: quello per l’attore protagonista, un’ottima prova di Di Caprio (ma anche Cate Blanchett nel difficilissimo ruolo di Katherine Hepburn riesce ad illuminare lo schermo) e quello per il montaggio, sapiente e genialmente destabilizzante, ad opera di Thelma Schoonmaker, che collabora con Scorsese dai tempi di Toro scatenato.


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