IL GENIO DIMENTICATO
DI ARTHUR RUSSELL

di Giovanni Caiola

Certo che a volte è proprio difficile cominciare degnamente un articolo e questa volta più di altre. Sì, perché davvero non so come presentarvi la figura di Arthur Russell senza farmi prendere da una triste e amara ironia che mi blocca le dita sulla tastiera. Come posso rimanere insensibile davanti alla figura e alla musica di un ragazzo, newyorkese d’adozione, idolatrato da - prendete un bel respiro e tenetevi pronti - Philip Glass, Gary Lucas, David Toop, John Hammond, David Byrne dei Talking Heads, Nicky Siano, Happy Traum, Bob Dylan e Allen Ginsberg eppure a tutt’oggi perlopiù sconosciuto al grande pubblico? E non si dice poi che in certi casi una morte prematura “aiuta” la conquista dell’immortalità artistica? La vicenda del povero Russell è una malaugurata eccezione a questa discutibile regola, si spegneva difatti di AIDS nel 1992 a soli quarant’anni ma i riflettori tendono ancora a non illuminarne il genio artistico. E che dire poi del fatto che proprio l’anno scorso sono uscite due sue antologie, una delle quali contenente solo materiale inedito, ed è stato ristampato l’ormai introvabile capolavoro World of Echo, ma anche stavolta non sembra esser nato alcun interesse nei suoi confronti? Permettetemi allora di inchinarmi davanti a quest’uomo e onorarlo come posso, con un indegno articolo che spero riesca a muovere qualche amato lettore a ricercarne i dischi. Devo subito informare l’appena citato lettore che dischi del Nostro non se ne trovano molti nei negozi, giusto i tre cui ho accennato sopra, ma basteranno comunque a farglielo amare per sempre, eccome se basteranno! E, proprio volesse acquistarne uno solo e fosse indeciso, gli consiglierei di non partire dalle antologie (The World of Arthur Russell e Calling Out of Context entrambe in ogni caso bellissime) ma proprio da World of Echo del 1986. Al primo ascolto rimarrà forse a bocca aperta, ma non si preoccupi perché la reazione sarà la medesima anche al secondo, al terzo e a qualunque altro grado di ascolto possa giungere. In completa solitudine Russell, col solo utilizzo di voce e violoncello, dipinge paradisi di echi d’invincibile ed estatica malia, musica che immediatamente non risulterà nuova all’orecchio per il semplice motivo che parrà d’averla già udita in sogno. Il tutto filtrato attraverso un utilizzo dello studio di registrazione degno dei grandi maestri del dub – per non fare che un nome cito qui Lee “Scratch” Perry, il più grande di tutti –, che dilata i suoni e sospende, in modo affascinante ma pure inquietante, il tempo. Non di un disco di facile ascolto si tratta, come l’interessato lettore di cui sopra avrà già capito, ma le emozioni che concede son talmente forti che le difficoltà passeranno in secondo o addirittura in terzo piano. E quando si risveglierà dall’oppiaceo incanto si prepari a conoscere l’altro Arthur Russell, quello non meno “difficile” che sapientemente mischia nello stesso brano inflessioni avanguardiste e ritmi dance.


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