CRASH
CONTATTO FISICO

di Ilaria Feole

Una volta tanto la distribuzione italiana ha colto nel segno con l’aggiunta del sottotitolo per questo film: il “contatto fisico” è il tema portante di Crash. La prima frase pronunciata da Don Cheadle dopo i titoli di testa inizia appunto così: “Il contatto fisico. In una città vera si cammina, sfiori gli altri, sbatti contro la gente. Qui a Los Angeles non c’è contatto fisico con nessuno. Stiamo tutti dietro vetro e metallo. Il contatto ci manca talmente che ci schiantiamo contro gli altri per sentirne la presenza”. Ma non è solo di Los Angeles che si tratta, perché Crash è un film sui confini. Confini che segnano la provenienza delle persone, confini tra giusto e sbagliato, ma soprattutto i confini personali; il quartiere, le mura domestiche, il nostro corpo. Tutti i protagonisti hanno a che fare con questo confine privato: perché violano quello di qualcun altro, o perché non riescono a far entrare nessuno nel proprio, o ancora perché dovrebbero proteggere quello degli altri. Una dozzina di personaggi intrecciano le proprie vite nel corso di 48 ore, oltrepassando quei confini invisibili e a volte inesprimibili. C’è un poliziotto razzista che si ritrova a salvare la vita alla stessa donna che aveva molestato, e c’è un poliziotto onesto ma vigliacco, che scopre suo malgrado di essere vittima degli stessi pregiudizi del detestabile collega. C’è un negoziante iraniano che compra una pistola per proteggersi, ma si vede distruggere il negozio a causa di una porta rotta, e decide di vendicarsi sull’operaio incaricato di aggiustare la serratura (l’unico personaggio forse totalmente positivo: non a caso di mestiere ripara i “confini domestici” delle persone). Ci sono due ragazzi di colore che rubano auto, ma solo ai bianchi. C’è una donna ricca e arrabbiata, che teme per la sicurezza della sua casa ma non si accorge che sta scavando fossati anche tra sé e gli altri. Sarebbe riduttivo dire che Crash è un film sul razzismo: è piuttosto una riflessione sulla banalità e la persistenza del pregiudizio. Sono i personaggi stessi ad affrontare l’argomento nei loro discorsi, mostrando, in una lucida e impietosa panoramica urbana, come nessuno sia realmente libero da pregiudizi, e come questi affondino le radici nell’ancestrale e irrazionale paura che qualcuno violi i nostri confini. Il film ricorda Magnolia nell’ambientazione, nella struttura corale di vite intersecate e nello scioglimento finale (anche in questo caso avviene con una precipitazione che sa di catarsi; ma se là erano rane, qui è solo neve, fatto comunque improbabile a Los Angeles); la sceneggiatura (scritta dal regista Paul Haggis) è perfetta, compatta e supportata da un ottimo cast. Crash ha inaspettatamente vinto l’Oscar come miglior film del 2005: meritato per la potenza e il coraggio dell’opera, che però sbanda proprio nel finale in una sorta di happy ending consolatorio poco in linea col pessimismo di fondo. Il film è comunque prezioso per come dipinge il fallimento del melting pot americano: le diverse culture che convivono negli Stati Uniti si ritrovano a dialogare solo quando si “sbattono contro”, e l’impatto spesso provoca vittime.


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