DAL PIL AL PILA
PENSANDO ALLA DECRESCITA

di Claudio Morselli

Il mio amico Paolo Coita è rimasto sorpreso leggendo il brano di Robert Kennedy che abbiamo pubblicato sul numero scorso della Civetta. E si è commosso. Ne ha ben ragione, è capitato anche a me e credo che molti altri avranno provato la stessa sensazione di incredulità e commozione. Fa un certo effetto sapere che quasi quarant’anni fa, negli Stati Uniti, un personaggio politico del calibro di Robert Kennedy ci metteva in guardia dagli effetti perversi del progresso economico e contestava duramente il parametro indiscusso con il quale ancora oggi, e oggi ancor di più, si misurano progresso e sviluppo: il Pil, il Prodotto interno lordo. Per avere un’idea dell’assurdità di questo indicatore, basti qualche esempio. Se un terremoto fa crollare un edificio causando morti e feriti, ciò vuol dire che tutte le attività relative all’opera di soccorso e ai lavori di ricostruzione di quell’edificio provocano un aumento del Pil, ma il Pil aumenterebbe ancora di più se, per assurdo, quell’edificio fosse demolito con il lavoro di un’impresa allo scopo incaricata. Per gli stessi motivi il Pil aumenta se, dopo un grave inquinamento, si realizzano interventi di bonifica. Il Pil, dunque, senza fare alcuna distinzione o valutazione di merito, si limita a quantificare il valore della produzione e dei servizi venduti, indipendentemente dal loro livello qualitativo. Il Pil registra indistintamente tutti i movimenti del mercato, per cui, a parità di valore, aumenta allo stesso modo sia che si acquistino alimentari o medicine, sia che si spenda per andare in vacanza o per curarsi le malattie, per salvaguardare il territorio o per distruggerlo. Se, per assurdo, il governo del Brasile dovesse decidere di disboscare l’intera foresta amazzonica, il Pil del suo paese salirebbe alle stelle!

La vicenda del Pil ci dà la misura del livello di omologazione culturale che il pensiero unico è riuscito a realizzare, su scala globale, nel mondo economico, nella politica e nella società. Il responso del Pil è inattaccabile, nessuno può metterlo in discussione; è uno stato mentale, un paradigma del quale siamo tutti più o meno prigionieri, anche se non è vero che il Pil è l’indice del benessere di un popolo o di un’economia; anche se – come diceva, appunto, Robert Kennedy – “misura tutto tranne ciò che dà valore alla vita”. Siamo dunque tutti attaccati al Pil, ma qualcosa si sta muovendo. La cultura ambientalista e nonviolenta, fino a pochi anni fa patrimonio di ristrette minoranze, si è diffusa in tutto il mondo con la nascita dei movimenti che contestano la globalizzazione neoliberista del grande capitale e trova ogni giorno riscontro nella mobilitazione di tanti gruppi e comitati locali che si battono contro l’inquinamento e la devastazione del loro territorio. Anche all’interno delle forze politiche, in particolare dei partiti del centrosinistra, cresce la consapevolezza che occorre mettere in discussione l’attuale modello economico e che bisogna cominciare, sia pure a piccoli passi, a introdurre elementi di cambiamento. Ne è un esempio la proposta di legge elaborata da alcuni deputati dei Democratici di Sinistra e di Rifondazione Comunista e presentata in questi giorni alla Camera con oltre cento firme di parlamentari di tutto lo schieramento di centrosinistra. L’argomento è proprio il Pil. Si afferma chiaramente che il Prodotto interno lordo non è la misura del benessere e si propone di introdurre, a fianco del Pil, un nuovo indicatore: il Pila, ovvero il Prodotto interno lordo in versione ambientale, per avere un riscontro sugli effetti che la produzione di beni e servizi provoca sul territorio, sugli ecosistemi e sulla salute dei cittadini. Certo, è un piccolo segnale, ma è importante perché dimostra che si comincia ad uscire dal paradigma dello sviluppo. E non solo a sinistra.

Sono rimasto sbalordito, qualche giorno fa, nel sentire che il discorso di Robert Kennedy sul Pil è stato citato, con giudizi positivi, nientepopodimeno che dall’attuale potente ministro dell’economia Giulio Tremonti, il quale, a scanso di equivoci, ha aggiunto che effettivamente ci vorrebbe meno economia e più valori. Non metto in dubbio l’onestà politica di Tremonti,ma non posso non rilevare una contraddizione non indifferente tra questa sua presa di posizione e la politica economica che il governo italiano ha realizzato nel nostro paese. E’ vero, in ogni caso, che le considerazioni, sia pure contradditorie, del ministro Tremonti sono significative di uno stato d’animo che trova effettivamente sempre più riscontro nell’area politica del centrodestra. Si deve constatare, in sostanza, che la sensibilità ambientale e l’opposizione alla globalizzazione del capitale si fanno strada nella coscienza dei cittadini, in modo trasversale, senza alcun rispetto per la storica contrapposizione politica destra-sinistra e, mi pare, superando la tradizionale critica della modernità. E’ l’inizio di una rivolta delle coscienze contro la violenza distruttiva del cosiddetto libero mercato, alla ricerca di un’alternativa a un sistema economico alienante e profondamente ingiusto, che produce omologazione culturale con l’annullamento delle tradizioni e delle diversità locali, che fa aumentare il divario tra ricchi e poveri e che sta portando il pianeta alla rovina. Nel frattempo si mettono in discussione gli stili di vita imposti dalla moderna società iperconsumistica, nella consapevolezza che, come sottolinea Hervé Martin “una persona felice non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri, non tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non acquista continuamente oggetti costosi e inutili”. Serge Latouche, sulla scia di Nicholas Georgescu-Roegen, ha individuato questa alternativa nella società della decrescita, che non è immobilismo conservatore e non vuole essere un impossibile ritorno al passato, ma “un’organizzazione totalmente diversa, dove l’economia sia rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo, dove la riduzione del saccheggio della biosfera ci conduca ad un miglior modo di vivere e ad un minimo di giustizia sociale nel mondo, dove i rapporti sociali primeggino sulla produzione e sul consumo di prodotti usa-e-getta, inutili e nocivi, dove si realizzi una riduzione dell’orario di lavoro per assicurare a tutti un’occupazione”. Si potrà dissentire, ma non eludere il problema.