DOPO IL REFERENDUMRISPONDERECON LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVAALLA CRISI DELLA POLITICA

di Claudio Morselli

Il risultato del referendum istituzionale del 25 e 26 giugno è molto importante, e per diversi motivi. Innanzitutto perché gli elettori italiani, bocciando nettamente la modifica della Carta Costituzionale votata a colpi di maggioranza dal centrodestra, hanno impedito che la Repubblica italiana scivolasse verso una pericolosa deriva populista, acquisendo i connotati di un mostro giuridico che avrebbe combinato una forte concentrazione di poteri nella persona del primo ministro con uno spezzatino regionale caotico e dispendioso. In secondo luogo perché la partecipazione al voto, molto superiore ad ogni previsione, dimostra ancora una volta che, di fronte agli appuntamenti importanti, la gente non rinuncia ad esprimersi. Paradossalmente, la soglia del 50 per cento è stata superata, dopo undici anni, proprio in questo referendum senza quorum, ma di cui, evidentemente, gli elettori hanno riconosciuto la grande importanza. La vittoria schiacciante del NO, in terzo luogo, dimostra che il voto ha superato le logiche dell’appartenenza politica, trattandosi quindi di un voto maturo, ragionato, che gli italiani hanno espresso nel merito del quesito referendario, anche contro le indicazioni del partito che avevano votato due mesi o qualche settimana prima. Questo risultato, inoltre, può finalmente porre fine alla stagione delle modifiche costituzionali imposte a maggioranza, prima dall’Ulivo (sia pure in termini molto più contenuti) e poi dalla Casa delle Libertà. Il centrosinistra l’ha scritto nel suo programma e l’ha ribadito, sia nella campagna referendaria che in tutti i commenti post-elettorali: mai più una modifica della Costituzione senza il coinvolgimento dell’opposizione. C’è quindi da augurarsi che su questi temi, che riguardano i fondamenti della democrazia del nostro paese, anche il centrodestra si convinca della necessità di passare da una dura e sterile contrapposizione a un confronto chiaro e trasparente, alla ricerca del massimo di consenso su soluzioni condivise.

Si tratta però di capire in che direzione è opportuno orientare il confronto politico, e su questo punto mi pare che uno degli argomenti più importanti da affrontare riguardi il significato stesso di democrazia, ovvero il rapporto tra governanti e governati, tra politica e cittadini, tra istituzioni e cittadini. È un tema decisivo che chiama in causa la crisi della politica, la sua autoreferenzialità, la sua perdita di credibilità e l’incapacità, del sistema dei partiti, di essere in sintonia con le aspettative della gente. I partiti sbaglierebbero di grosso a non cogliere questa opportunità di pensare a una vera e propria rifondazione della politica. Si dovrà pur prendere atto, ad esempio, del fatto che il sistema maggioritario, che avrebbe dovuto semplificare il quadro politico, ha prodotto invece una moltiplicazione di partiti, partitini, gruppi e sottogruppi, correnti e sottocorrenti, fino ad arrivare, in molte realtà, alle faide e alle lotte tribali dei signori delle tessere (non sono pregiudizialmente contrario al maggioritario, ma non si possono più tollerare le degenerazioni di questo sistema, tanto più da quando si è combinato con un meccanismo elettorale vergognoso che, per la prima volta nella storia della Repubblica, ha tolto ai cittadini la possibilità di esprimere la propria preferenza sui candidati al Parlamento, avendo affidato alle segreterie dei partiti il potere di decidere la graduatoria dei parlamentari che devono essere eletti). Così come non si potrà sottacere il quadro desolante di una politica malata di leaderismo, di esasperata personalizzazione e di banale spettacolarizzazione, una politica sempre più lontana dalla gente, con i politici che, di fronte all’opinione pubblica, appaiono come una casta di privilegiati, che si parlano addosso, con il loro linguaggio sempre più astruso, con i loro riti e le loro, spesso, incomprensibili polemiche.

Gli oltre quattro milioni di elettori ed elettrici che nell’ottobre scorso hanno votato alle primarie dell’Unione sono la prova più lampante della gran voglia di partecipazione che c’è fra la gente e della possibilità di conquistare alla politica attiva grandi masse di cittadini che ora ne sono escluse. Ma la politica deve cambiare, restituendo il potere ai cittadini, con un effettivo decentramento istituzionale, con la valorizzazione degli enti locali territoriali, con un federalismo solidale che si sviluppi attivando forme e strumenti di democrazia partecipativa, come si è iniziato a fare quindici anni fa a Porto Alegre, in Brasile, con il bilancio partecipativo. La procedura delle primarie dovrebbe essere istituzionalizzata per consentire agli elettori di partecipare direttamente alla scelta dei candidati, a tutti i livelli, e i partiti dovrebbero intervenire radicalmente sulla struttura della loro organizzazione, passando da un sistema chiuso, burocratico e piramidale a una struttura a rete, più democratica, coinvolgente e partecipativa. Tutto ciò si lega, indissolubilmente, a una visione nonviolenta della società che Aldo Capitini, più di cinquant’anni fa, già prospettava in modo chiaro ed efficace. Scriveva Aldo Capitini: “La nonviolenza non può non essere all’opposizione della società esistente, che pratica apertamente la violenza. (…) La nonviolenza va portata come metodo costante per le grandi lotte sociali e politiche, come “rivoluzione” aperta e stimolo di pianificazione dal basso, al decentramento e al controllo fatto da tutti. (…) Per trasformare tutta la società è dunque necessario cambiare il metodo, e farla cominciare dal basso invece che dall’alto. Bisogna cominciare uno sviluppo del controllo dal basso che dovrà crescere sempre più. Anzitutto essendo uniti. (…) Ogni società fino ad oggi è stata oligarchica, cioè governata da pochi, anche se rappresentanti di molti; oggi specialmente, malgrado la diffusione di certi modi detti democratici, il potere, un potere enorme, è in mano a pochi, in ogni Paese. Bisogna invece arrivare ad una società di tutti, alla omnicrazia. (…) Il potere deve diventare di tutti mediante la trasformazione parallela degli animi e delle strutture”. È questa, a mio giudizio, la vera sfida che caratterizza il passaggio d’epoca che stiamo attraversando e dalla quale nessuno può chiamarsi fuori.