PROTESTA NO TAV
LA FOLLIA DELLO SVILUPPO

di Claudio Morselli

Rispondo ad alcune sollecitazioni che mi sono state fatte sull’argomento No Tav affrontato nel numero scorso della Civetta per approfondire, in particolare, il rapporto tra l’opposizione al progetto Tav della Val Susa e un’idea di alternativa all’attuale modello di sviluppo. Come abbiamo visto, alla base di questa opposizione si intrecciano argomenti di carattere locale e motivazioni legate a temi di rilevanza più generale che, sostanzialmente, possiamo raggruppare in tre ordini di motivi. Il primo riguarda gli abitanti della Val Susa, la loro salute, la qualità della loro vita e dell’ambiente in cui vivono, nonché le mancate procedure di coinvolgimento e di partecipazione democratica alle scelte decisionali. A tale proposito ricordo, solo di sfuggita, la presenza di amianto accertata dall’Azienda Ospedaliera San Luigi di Orbassano “con possibilità assolutamente rilevante che si verifichino condizioni di rischio sanitario per la popolazione”, la mancata realizzazione della valutazione ambientale prevista dall’Unione europea – con la quale il progetto verrebbe probabilmente bocciato – e la trasformazione dell’intera valle in un unico, immenso cantiere per la durata di almeno quindici anni. E già questo potrebbe bastare. Il secondo riguarda la convenienza economica, la fattibilità tecnica e l’assenza di garanzie circa la realizzazione degli obiettivi previsti per quest’opera faraonica, che verrà a costare (e tutto a carico della collettività; cioè, pagheremo noi) quattro volte il costo del contestatissimo ponte previsto sullo stretto di Messina e il fatto che non sono state prese in considerazione altre ipotesi – che pure esistono, meno costose e più rispettose dell’ambiente – in alternativa al progetto che si vuole realizzare. Il terzo riguarda invece la necessità di guardare al futuro, e non solo agli appalti delle imprese incaricate di realizzare i tunnel, tra le quali c’è, guarda caso, proprio l’impresa della famiglia Lunardi, il nostro ministro (appunto) delle infrastrutture, che sul versante francese ha già cominciato a fare le prime trivellazioni.

Guardare al futuro significa ripensare la follia dello sviluppo, secondo cui il benessere della popolazione è legato al feticcio del Pil (Prodotto interno lordo) ovvero alla crescita continua (infinita) della produzione e del consumo di merci, presupponendo la disponibilità continua (illimitata) di risorse naturali. Ma le risorse naturali non sono infinite e il pianeta, come bene ognun che vuol sapere sa, non se la sta passando troppo bene. Eppure è così, la nostra vita, il nostro futuro, il futuro del nostro pianeta, sono nelle mani di una lobby di economisti-affaristi che negli uffici delle istituzioni internazionali (WTO, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) stanno pianificando la distruzione (inconsapevole?) del pianeta, già trasformato in moderno supermercato globale delle multinazionali e dei tossicodipendenti del consumismo. Mi è capitato per le mani un libro di Enzo Grilli, che è Professore di Economia internazionale alla Scuola di Alti Studi Internazionali della Johns Hopkins University di Washington. Il libro si intitola Crescita e sviluppo delle nazioni, è scritto molto bene, con tanti grafici, prospetti, tabelle e formule matematiche, ma contiene un particolare sconvolgente: non c’è, nemmeno una volta, la parola ambiente. L’ambiente non esiste, le risorse ambientali sono (appunto) infinite, è inutile preoccuparsi. Se il disboscamento delle foreste tropicali provoca un aumento dei gas serra e quindi della temperatura e, quindi, disastri ambientali, non c’è problema. Anzi, secondo la logica del Pil, dopo un disastro bisogna ricostruire e la ricostruzione fa schizzare in alto il Pil, per cui è tutto ok!

Una volta Schumpeter distingueva tra crescita e sviluppo – crescita è produrre di più, sviluppo è produrre in altro modo – e l’economia era una delle tante discipline poste al servizio dell’uomo. Pasolini distingueva tra sviluppo e progresso: a volere lo sviluppo è il potere economico, il progresso lo vogliono i lavoratori. Robert Kennedy contestò duramente (eravamo nel 1968!) il fondamentalismo economico e l’eccessiva invadenza del Pil (si legga la bellissima citazione riprodotta qui a fianco). Oggi il pensiero unico del neoliberismo ha fatto tabula rasa di tutto quanto, non c’è più alcuna distinzione: economia uguale progresso, uguale crescita, uguale sviluppo, uguale… distruzione. In cinquant’anni lo sviluppo ha provocato più distruzione di risorse naturali e più disastri ambientali di quanto non ne abbia fatta tutta la storia dell’uomo, dall’età della pietra fino a cinquant’anni fa. Lo sviluppo è un pedale che spinge sull’acceleratore e che, continuando a premere, accelera sempre di più la velocità (la crescita continua che si aggiunge alla crescita pregressa, e guai se non si cresce!), finché non si va a sbattere contro il muro. Sviluppo è quindi sinonimo di società dello spreco e della distruzione: distruzione di risorse naturali, di lavoro (perché lo sviluppo distrugge il lavoro e crea solo precarietà), distruzione di valori e di coesione sociale, come appare evidente, in particolare, dalle situazioni di emarginazione e di degrado presenti nelle periferie urbane tutto il mondo. E’ per questo che, come ci insegna Latouche, l’alternativa non è un diverso modello di sviluppo, uno sviluppo umano o uno sviluppo sostenibile, ma la decrescita, il doposviluppo (ma avremo modo di ritornare sull’argomento).

In questo contesto le politiche dei trasporti e delle infrastrutture assumono un ruolo decisivo, concorrendo a determinare, in base alle loro caratteristiche, la qualità della società in cui vogliamo vivere. E su questo occorre discutere. Oggi sono rimasti in pochi ad esaltare acriticamente la globalizzazione selvaggia, che però dilaga, e non c’è stato un solo economista che abbia saputo denunciare l’assurdità di una situazione in cui, ad esempio, “uno yogurt al mirtillo fa 1.500 chilometri su un Tir, il latte viene dalla Baviera, il petrolio per la plastica dei vasetti dal Golfo Persico, l’alluminio del tappo dalle miniere del Canada, i mirtilli dall’Irlanda e il tutto è assemblato a Bruxelles, poi in un camion fino a Genova”. Ci voleva un comico (Beppe Grillo) per fare questo.


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